domenica 30 agosto 2009

Chi preferite? - Dedicato ai gattofili

Io la mia scelta l'ho fatta. La prima foto appartiene al celeberrimo servizio di Playboy del 1953, la seconda ritrae Triskella, una gattina tricolore che, qualche anno fa, fu nostra ospite per un paio di mesi e poi scomparve senza lasciare traccia, come fanno di solito le fate.



sabato 29 agosto 2009

Il cubo di lato –1

Ogni tanto mi imbatto in qualche buffa poesiola dell’americano J. A. Lindon di argomento matematico. La cosa non mi stupisce, perché questo poco noto autore, di cui si trovano rare tracce sul web, ha scritto anche strani palindromi basati sull’inversione delle parole invece che delle lettere:

Girl, bathing on Bikini, eying boy, finds boy eying bikini on bathing girl.

Questa volta però la sua opera è talmente carina da muovermi a un tentativo di adattamento in italiano. Ho trovato la sua A Positive Reminder in Imaginary Numbers, An Anthology of Marvelous Mathematical Stories, Diversions, Poems, and Musings, antologia curata da William Frucht, John Wiley & Sons, New York, 1999. Ecco l’originale:

A Positive Reminder

A carpenter named Charlie Bratticks,
Who had a taste for mathematics,
One summer Tuesday, just for fun,
Made a wooden cube side minus one.

Though this to you may well seem wrong,
He made it minus one foot long,
Which meant (I hope your brains aren't frothing)
Its length was one foot less than nothing.

In width the same (you're not asleep?)
And likewise minus one foot deep;
Giving, when multiplied (be solemn!).
Minus one cubic foot of volume.

With sweating brow this cube he sawed
Through areas of solid board;
For though each cut had minus length,
Minus times minus sapped his strength.

A second cube he made, but thus:
This time each one foot length was plus:
Meaning of course that here one put
For volume: plus one cubic foot.

So now he had, just for his sins,
Two cubes as like as deviant twins:
And feeling one should know the worst,
He placed the second in the first.

One plus, one minus - there's no doubt
The edges simply cancelled out;
So did the volume, nothing gained;
Only the surfaces remained.

Well may you open wide your eyes,
For these were now of double size,
On something which, thanks to his skill,
Took up no room and measured nil.

From solid ebony he'd cut
These bulky cubic objects, but
All that remained was now a thin
Black sharply-angled sort of skin

Of twelve square feet - which though not small,
Weighed nothing, filled no space at all,
It stands there yet on Charlie's floor;
He can't think what to use it for!

E questo è il mio adattamento:

Un utile promemoria

Un falegname d’indole pragmatica,
che aveva il gusto della matematica,
un martedì d’estate (non c’era nessuno)
fece un cubo di legno di lato meno uno.

Anche se impossibile ciascuno lo crede,
lo fece proprio con lato di meno un piede,
il che vuol dire (tenetelo presente)
che era lungo un piede meno di niente.

In larghezza lo stesso, non vi confondo,
e parimenti era meno un piede profondo
che danno moltiplicati (non ci vuole acume)
meno un piede cubico di volume.

Con sudore della fronte, sega e impegno,
lo ottenne da tavole di massiccio legno,
così che di lunghezza negativa era ogni lato
ma meno per meno dà più un piede quadrato.

Fece un secondo cubo, un po' alternativo:
stavolta il lato era di un piede positivo,
con la conseguenza (tempo non vi rubo)
che il suo volume era di più un piede cubo.

Così ora aveva, per i suoi atti perversi,
due cubi come fossero gemelli diversi
e volendo provare il peggio, io stimo,
mise il secondo cubo dentro nel primo.

Uno più, uno meno, senza dubbio rimanente,
gli spigoli si annullavano reciprocamente;
così faceva il volume (usate le cervici):
e rimasero solamente le superfici.

Strabuzzate pure gli occhi in coppia:
queste ora avevano dimensione doppia,
su qualcosa che (fu abile davvero)
non occupava volume e misurava zero.

Da solido ebano egli aveva ricavato
due massicci cubi di un piede di lato,
ma ciò che rimaneva tanto sottile era
da parere un’angolosa sorta di pelle nera.

Dodici piedi quadri, era degno d’attenzione,
ma pesava niente e non aveva estensione;
nondimeno giace adesso sul suo pavimento
e lui non sa proprio che fare di tanto portento.

Ho illustrato l’articolo con il cubo di Necker, del quale non è possibile indicare quale faccia sia rivolta verso l'osservatore e quale sia dietro al cubo. Guardando la figura si può passare da una interpretazione all'altra (vien quasi da dire come se il cubo avesse lato unitario positivo oppure negativo).

venerdì 28 agosto 2009

L’inno alla stupidità di Enzensberger


Solo i piccoli librai mettono in evidenza libretti preziosi come questo, che ho trovato a Salsomaggiore. Hans Magnus Enzensberger (del quale ho già parlato per una sua poesia in omaggio a Gödel), in 64 pagine ripercorre la storia del concetto di intelligenza, critica ferocemente la possibilità di misurarla (IQ) e il dispotismo della psicometria, deride il sogno che possa diventare una proprietà delle cose (AI). Il testo (Nel labirinto dell’intelligenza, Einaudi, Torino, 2008) si conclude così:

Sicché al termine della nostra breve guida attraverso il labirinto dell'intelligenza si prospetta una conclusione elementare: in effetti non siamo abbastanza intelligenti per sapere che cosa sia l'intelligenza. Per questo motivo anche il poeta farà bene a occuparsi piuttosto della sua eterna antagonista, dedicando alla stupidità alcuni versi pindarici:

Potenza celeste che ti nascondi nelle pieghe dell'encefalo,
dote senza fondo elargita al genere umano
in saecula saeculorum,

tu sei innumere come la via lattea
e molteplice come l'erba.

Potente gemella dell'intelligenza,
mano nella mano
celebri con essa una triste tiritera.

Si, è forte, come tu ci ispiri in sempre nuove guise,
come scemenza femminile e come idiozia maschile,
come sprizzi dagli occhi iniettati di sangue del picchiatore
e muovi passetti con aristocratica boria tossicchiante,

come ci fiati addosso con l'alito cattivo di una musa sbronza
e come polisillabo delirare nel seminano filosofico.

Cosa sarebbe l'uomo d'azione senza di te, stupidità granitica, totale e idiota,
che corri ardente per le sue vene come una overdose di amfetamina,

e cosa il ricercatore senza l'idea fissa che insegue
per i bianchi corridoi del suo istituto come la pantegana nel labirinto?

Senza contare la storia universale : di chi mai si ricorderebbe,
se non dei vincitori, nella sua ottusità napoleonica?

Sicché a noi sarà trasmesso lo stolido orgoglio del vincitore
e il rancore sordo del perdente, solo di quando in quando addolcito
dallo sproloquio ispirato dei sacerdoti delle sette,
dei comici e dei bevitori coatti. Stupidità,

tu spesso diffamata, che nella tua scaltrezza
ti fingi più stupida di quello che sei, protettrice di tutti i menomati,

solo agli eletti concedi il tuo dono più raro,
la benedetta semplicioneria dei sempliciotti.

Essi sono le pagine bianche nel tuo grande libro
che a nessuno di noi tu dissigilli (*)

(*) Hans Magnus Enzensberger, Hymne an die Dummheit, in Kiosk. Neue Gedichte, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1995.

martedì 25 agosto 2009

Pericalypsis, una babelica pseudo-recensione

L’incipit più bello che ho letto quest’estate: “Joachim Fergenseld è tedesco, ma ha scritto la sua Pericalypse in olandese (idioma che quasi non conosce, come egli stesso ammette nell’introduzione) e l’ha pubblicata in Francia, paese famoso per le sue catastrofiche bozze di stampa. Neppure chi redige questa nota conosce l’olandese, ma in base al titolo del libro, all’introduzione in inglese e ai molti vocaboli comprensibili del testo s’è persuaso di potersene proporre come recensore”.

(da Pericalypsis, in Vuoto assoluto di Stanisław Lem)

Il polacco Stanisław Lem (1921–2006) è stato scrittore abile e riconosciuto di racconti di fantascienza e meno noto autore di saggi filosofici e parodistici. In Italia è noto per Solaris, il romanzo del 1961 da cui Andrei Tarkowsky trasse infedelmente l’omonimo film del 1971, allora considerato la risposta russa a 2001, Odissea nello spazio. Le opere di Lem esplorano temi filosofici, speculazioni sulla tecnologia e le macchine, la natura dell’intelligenza, l’impossibilità di comunicazione e comprensione tra gli uomini, il rammarico per i limiti dell’uomo. Queste tematiche ricorrono sia nelle opere di fiction, sia nei saggi, filosofici e satirici al tempo stesso. Ammiratore dell’opera e dello stile di Borges, Lem pubblicò nel 1974 un’antologia di recensioni immaginarie di libri inesistenti, cui diede il titolo di Vuoto Assoluto (Doskonała próżnia nell’originale). Si tratta di un’opera complessa, in cui sono presenti idee per racconti di fantascienza, riflessioni filosofiche su argomenti scientifici, dalla cosmologia alla pervasività dei computer, satire e parodie di mode e generi letterari. Il libro fu tradotto in italiano da Alberto Zoina e pubblicato dagli Editori Riuniti nel 1990. Mai più ristampato, il testo è oggi di assai difficile reperimento: personalmente ho dovuto ricorrere all’acquisto online da una libreria antiquaria e dell’usato, consorziata nell’utilissimo portale Maremagnum. È un vero peccato che il pubblico italiano non abbia accolto questa singolare e preziosa opera come meritava.

Vuoto assoluto si apre con una recensione del libro stesso, curata dallo stesso autore, che parla di Lem in terza persona: inutile dire che si tratta di una stroncatura. Pericalypsis, sarebbe stato scritto da Joachim Fergenseld, un profeta che è muto come chi, essendo un tedesco, sceglie di rivolgersi ai francesi in olandese dopo un’introduzione in inglese. L’assunto del testo è che il mondo è invaso dalla spazzatura dei vuoti a perdere e degli imballaggi sul piano materiale e da quella dell’inutile chiacchiericcio sul piano letterario e spirituale. “Se nel Sahara fossero nascosti quaranta granelli di sabbia dal cui ritrovamento dipendesse la salvezza dell’umanità, nessuno li troverebbe, così come sarebbero introvabili quaranta libri di salvezza, scritti da chissà quanto tempo e sommersi da montagne di carta straccia. Che quelle opere siano veramente state scritte, ce lo garantisce, con metodo statistico e matematico, ma in olandese, Joachim Fergenseld, e il recensore non può qui che credergli sulla parola, ignorando del tutto sia il linguaggio degli olandesi che quello dei matematici”. Di questa situazione nessuno se n’è accorto, anche se essa è già avvenuta. La profezia è dunque una retrofezia: perciò si chiama Pericalisse e non Apocalisse. La proposta dell’autore è radicale: chi scrive libri deve pagare di tasca propria e deve essere disincentivato da una forma di tassazione proporzionale al numero di opere, così pubblicherà solo chi ha qualcosa di davvero importante da dire ed è disposto a pagare di persona per dirlo. Per l’esistente egli propone roghi di tutta la cultura del XX secolo, roghi non reazionari come quelli del passato, di cui non gli sfugge l’infamia, ma roghi di salvataggio, progressivi, redentori. Coerentemente Fergenseld suggerisce al lettore nell’ultimo paragrafo di fare a pezzi e consegnare al fuoco la sua stessa Pericalypsis. Questo articolo è dedicato all’amica Perfida Nera.


domenica 9 agosto 2009

Manipolazioni di San Lorenzo



La poesia sulle stelle cadenti di Giovanni Pascoli è una della più piagnucolose della sua produzione. Non dico che sia brutta o insincera, ma personalmente rifuggo dal patetico in cui ogni tanto amava ficcarsi il grande poeta romagnolo. Mi sono sentito così nel diritto di sottoporla ad un alcuni procedimenti oulipiani, cioè l’applicazione al testo di tecniche di elaborazione basate sulla contrainte, la costrizione formale autoimposta. Si tratta di esperimenti, per cui il risultato non può certo ambire al valore estetico, comunque conto sulla comprensione e la pazienza del lettore.

X agosto

San Lorenzo , io lo so perché tanto
di stelle per l'aria tranquilla
arde e cade, perché si gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.

Ritornava una rondine al tetto :
l'uccisero: cadde tra i spini;
ella aveva nel becco un insetto:
la cena dei suoi rondinini.

Ora è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell'ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.

Anche un uomo tornava al suo nido:
l'uccisero: disse: Perdono ;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono.

Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.

E tu, Cielo, dall'alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d'un pianto di stelle lo inondi
quest'atomo opaco del Male!


Hai-kaizzazione

L’hai-kaizzazione è un procedimento inventato da Raymond Queneau che consiste nel prendere una poesia esistente e nel cancellarla, conservando soltanto le parti che rimano (non necessariamente ridotte a una sola parola) aggiungendovi una punteggiatura soggettiva: "Lungi dal lasciar cadere il senso dell’originale, – scrive Queneau – ne daranno al contrario, sembra, un luminoso elisir, al punto che ci si può chiedere se la parte trascurata non fosse pura ridondanza”. Nel caso di X agosto mi sono divertito ad aggiungere un titolo suggeritomi dalle parole superstiti

Un lungo mutuo ci attende

Tanto,
tranquilla,
gran pianto
sfavilla.

Tetto
tra i spini,
un insetto:
rondinini.

Tende
lontano,
attende,
piano.

Al nido
perdono:
un grido
in dono.

Casa romita,
vano,
immobile addita
lontano.


Poesia antònimica

La poesia antònimica è la tecnica di creazione poetica che consiste nel sostituire a ogni parola di una data poesia il suo antònimo, cioè la parola che ha significato opposto, per cui il verso montaliano Spesso il male di vivere ho incontrato diventa Mai dal bene di morire sono scappato oppure T’amo pio bove diventa T’odio empia vacca. Non si tratta di un mero plagio alla rovescia, perché il procedimento può offrire sequenze inaspettate e valide poeticamente. Volendo applicare lo spirito della contrainte anche alla data che fa da titolo alla poesia, ho considerato il giorno che cade esattamente un semestre dopo (o prima), con il relativo santo del calendario. L’intenzione di mantenere le rime ha ovviamente costretto a qualche compromesso sulla rigidità del metodo e a qualche inversione all’interno dei versi.

IX febbraio

Sant’Apollonia, lei ignora se povertà
di nubi sull’acqua corrusca
si placa e sale, se non piccola ilarità
nel convesso abisso s’offusca.

Andava un acaro allo scantinato:
lo rianimarono, s’alzo sui cuscini
non aveva tra le zampe un cordato:
l’astinenza d’altrui acarini.

Doman non è qui, non in gloria, ritira
questo leone dall’abisso adiacente
o il mio deserto è al sole, non rimira,
e mai ruggisce men che fortemente.

O una donna partiva dal periglio
la salvarono: pensò: maledetto;
o andò, nei chiusi denti un bisbiglio:
carpiva un fardello per dispetto.

Domani qui, fuor dalla via affollata
ti ignoreremo, ignoreremo con agio:
noi celeri, freddi, la direzione celata
dell’onere dal paese randagio.

O Abisso, dall’imo del paradiso
finito, perituro, colmo di pene,
ah! di polvere dissecchi senza sorriso
quel luminoso universo del Bene!


Inventario

La tecnica dell’inventario è stata introdotta da Jacques Bens e consiste nell’estrarre i sostantivi di una poesia (o gli aggettivi, o i verbi o gli avverbi). Si ottiene un elenco che può avere o no un senso, che può ricordare oppure no le immagini della poesia originaria. Secondo Bens “i risultati migliori vengono dai versi liberi (da quelli buoni, naturalmente). Suppongo che sia perché tutte le parole vi sono necessarie, sono tutte partecipi dello stesso universo chiuso su se stesso”. I sostantivi sono poi utilizzati con il solo ausilio degli articoli e delle preposizioni.

X agosto

San Lorenzo
stelle per l'aria
pianto
nel cielo.
Una rondine al tetto:
gli spini;
il becco, un insetto:
la cena, i rondinini.
Croce,
verme, il cielo;
nido nell'ombra.
Un uomo, il nido:
perdono;
gli occhi un grido:
bambole in dono.
La casa,
le bambole il cielo.
Cielo, i mondi
pianto di stelle
atomo del Male!


Bondizzazione

Un’evoluzione del procedimento precedente, di mia ideazione, consiste nel mantenere per ogni verso, se (e solo se) sono presenti insieme, un sostantivo e un aggettivo, secondo lo stile allo stesso tempo essenziale ed efferato delle composizioni (ché di poesie è arduo parlare) di Sandro Bondi. Quella sulla poesia di Giovanni Pascoli (mi perdoni il Poeta soprattutto per questo affronto finale) è la prima prova di bondizzazione. Il titolo è un auspicio.

Inatteso risveglio

Aria tranquilla,
gran pianto,
concavo cielo.
Verme lontano:
aperti occhi.
Casa romita,
cielo lontano,
atomo opaco!

venerdì 7 agosto 2009

Rio Mandelbrot

Tre casettine
dai tetti aguzzi,
un verde praticello,
un esiguo ruscello: rio Mandelbrot,
un vigile cipresso.
Microscopico paese, è vero,
paese da nulla, ma però...

Su ciascuna casettina
tre casettine
dai tetti aguzzi,
un verde praticello,
un esiguo ruscello: rio Mandelbrot,
un vigile cipresso.
Microscopico paese, è vero,
paese da nulla, ma però...

Su ciascuna casettina
tre casettine
dai tetti aguzzi,
un verde praticello,
un esiguo ruscello: rio Mandelbrot,
un vigile cipresso.
Microscopico paese, è vero,
paese da nulla, ma però...

Su ciascuna casettina
tre casettine
dai tetti aguzzi,
un verde praticello,
un esiguo ruscello: rio Mandelbrot,
un vigile cipresso.
Microscopico paese, è vero,
paese da nulla, ma però...

Su ciascuna casettina
tre casettine
dai tetti aguzzi,
un verde praticello,
un esiguo ruscello: rio Mandelbrot,
un vigile cipresso.
Microscopico paese, è vero,
paese da nulla, ma però...

. .... ....
. ....
. .. ...
. .. ....
. ... ... . ...
. ... ...
..... ... . ..
... . .. . ..
...

giovedì 6 agosto 2009

6 agosto: Neruda e Hiroshima



Ode all'atomo
(Pablo Neruda)

Piccolissima
stella
sembravi
per sempre
sepolta,
e nel metallo, nascosto,
il tuo diabolico
fuoco.
Un giorno
bussarono
alla tua minuscola
porta:
era l'uomo.
Con una
scarica
ti liberarono,
vedesti il mondo,
uscisti
nel giorno,
percorresti
città,
il tuo gran fulgore arrivava
a illuminare le esistenze,
eri
un frutto terribile
d'elettrica bellezza,
venivi
a affrettare le fiamme
dell'estate,
e allora
giunse
armato
d'occhiali di tigre
e armatura,
con camicia quadrata,
con sulfurei baffi
e coda di porcospino,
giunse il guerriero
e ti sedusse:
dormi,
ti mormorò,
avvolgiti tutto,
atomo, che sembri
un dio greco,
una primaverile
modista parigina,
adagiati
sulla mia unghia,
entra in questa cassettina,
e allora
il guerriero
ti mise nel suo gilè
come se fossi soltanto
una pillola
nordamericana,
e se ne andò per il mondo
e ti lasciò cadere
a Hiroshima.

Ci svegliammo.
L'aurora
si era consumata.
Tutti gli uccelli
caddero calcinati.
Un odore
di feretro,
di gas delle tombe,
tuonò per gli spazi.
Ascese orrenda
la forma del castigo
sovrumano,
fungo cruento, cupola,
gran fumata,
spada
dell'inferno.
Ascese bruciante l'aria
e si sparse la morte
a onde parallele,
e raggiunse
la madre addormentata
col suo bambino,
il pescatore del fiume
e i pesci,
la panetteria
e i pani,
l'ingegnere
e i suoi edifici,
tutto fu polvere
che mordeva,
aria assassina.
La città
sgretolò i suoi ultimi alveoli,
cadde, cadde d'un tratto,
demolita,
fradicia,
gli uomini
furono d'improvviso lebbrosi,
afferravano
la mano dei figli
e la piccola mano
rimaneva nella loro.

Così, dal tuo nascondiglio,
dal segreto
manto di pietra
dove il fuoco dormiva,
ti trassero,
scintilla accecante,
luce rabbiosa
per distruggere le vite,
per infestare lontane esistenze,
sotto il mare,
nell'aria,
sulle spiagge,
nella più remota
ansa dei porti,
per cancellare
i semi,
per assassinare i germi,
per ostacolare la corolla,
ti destinarono, atomo,
a lasciare rase al suolo
le nazioni,
a tramutare l'amore in nera pustola,
a bruciare cuori ammonticchiati,
ad annebbiare il sangue.

Oh folle scintilla,
ritorna
nel tuo sudario,
sotterrati
nei tuoi strati minerali,
torna ad essere pietra cieca,
non dar retta ai banditi,
corrotti invece
alla vita, all' agricoltura,
soppianta i motori,
stimola l' energia,
feconda i pianeti.
Non hai più
segreti
cammina
in mezzo agli uomini
senza maschera
terribile
affrettando il passo
e propagando
i passi della frutta
separando
montagne,
raddrizzando fiumi,
e fecondando,
atomo,
straboccata
coppa
cosmica,
torna
alla pace del grappolo,
alla velocità della gioia,
torna al recinto
dalla natura,
mettiti al nostro servizio,
e anziché le ceneri
mortali
della tua maschera,
anziché gli inferni scatenati
della tua collera,
anziché la minaccia
del tuo terribile chiarore, dacci
la tua sussultante
indocilità
per il bene dei cereali,
il tuo magnetismo sfrenato
per fondare la pace fra gli uomini,
e così non sarà inferno
la tua luce abbacinante,
ma solo felicità,
mattutina speranza,
contributo terrestre.

martedì 4 agosto 2009

Letteratura combinatoria (4): i tarocchi di Calvino


Un altro scrittore affascinato dalle possibilità della combinatoria è stato Italo Calvino, che aderì all’Oulipo nel 1973 durante il suo lungo soggiorno parigino, anche se da tempo aveva mostrato interesse per i rapporti tra lettere e scienza. Le concezioni oulipiane influenzano la struttura di alcuni dei suoi ultimi libri, in particolare de Il castello dei destini incrociati, di cui ebbe a dire che si trattava di una macchina "per moltiplicare le narrazioni partendo da elementi figurali dai molti significati possibili come può essere un mazzo di tarocchi". In effetti, come spiega lo stesso autore nella postfazione, la spinta alla stesura del testo che dà il nome all’opera fu influenzata da due circostanze: una relazione del semiologo Paolo Fabbri sulla funzione narrativa delle carte per divinazione e l’invito dell’editore Franco Maria Ricci a scrivere un testo per la lussuosa edizione di un mazzo di tarocchi del XV secolo noto come Tarocchi Visconti-Sforza. Le suggestioni evocate dalle splendide illustrazioni delle lame hanno spinto Calvino a congegnare dodici storie, a ciascuna delle quali l’autore ha posto in chiusura la sequenza di carte utilizzata per raccontarla. Le infinite possibilità della combinatoria sono rappresentate per lo scrittore da “questo quadrilatero di carte che continuo a disporre sul tavolo tentando sempre nuovi accostamenti non riguarda me o qualcuno o qualcosa in particolare, ma il sistema di tutti i destini possibili, di tutti i passati e i futuri, è un pozzo che contiene tutte le storie dal principio alla fine tutte in una volta”.

Nell’opera alcuni personaggi, resi muti da un incantesimo, raccontano la propria avventura allineando su un tavolo dei tarocchi. La prima carta estratta da ciascuno dei commensali è fondamentale, perché si identifica con il personaggio e ne rappresenta il destino. Questi utilizza poi sedici carte (che estrae dal mazzo o trova già disposte da altri), che, sistemate in due colonne o righe, rappresentano l’effettivo svolgimento della storia. Dal meccanismo combinatorio delle diverse disposizioni scaturisce una matrice di racconti, leggibile in ogni direzione.

Nella figura è illustrata la disposizione delle carte sul tavolo. Come esempio mostro quelle che determinano i primi due racconti, cioè Storia dell’ingrato punito (con bordo rosso) e Storia dell’alchimista che vendette l’anima (con bordo blu). Le carte iniziali sono numerate.

Un’analoga struttura combinatoria caratterizza il secondo dei testi che compone l’opera, La taverna dei destini incrociati. In questo caso il mazzo di tarocchi utilizzato è quello più popolare dei Tarocchi di Marsiglia, del XVIII secolo.

Devo necessariamente riferire di molti commenti secondo i quali Il castello non è tra le migliori opere di Calvino. Alcuni lamentano l’artificiosità eccessiva del meccanismo adottato, che si riflette sulla qualità letteraria delle storie. Altri evidenziano come le carte utilizzate siano 73, mentre l’intero mazzo dei tarocchi ne comprende 78 (22 arcani maggiori più 56 arcani minori). Se Calvino ha sacrificato delle carte alle esigenze combinatorie dello schema, non si comprende allora perché ne abbia utilizzata una in più del necessario, quella a destra della numero 12.

Tutto sommato è meglio che sia lo stesso lettore a giudicare: ecco la Storia dell’ingrato punito.

----------------------------

Storia dell’ingrato punito

Presentandosi a noi con la figura del Cavaliere di Coppe (immagine iniziale) - un giovane roseo e biondo che sfoggiava un mantello raggiante di ricami a forma di sole, e offriva con la mano protesa un dono come quelli dei Re Magi - il nostro commensale voleva probabilmente informarci della sua condizione facoltosa, della sua inclinazione al lusso e alla prodigalità, e pure - col mostrarsi a cavallo - d'un suo spirito d'avventura, sia pur mosso - giudicai io, osservando tutti quei ricami fin sulla gualdrappa del destriero - più dal desiderio d'apparire che da una vera vocazione cavalleresca.

Il bel giovane fece un gesto come per richiedere tutta la nostra attenzione e cominciò il suo muto racconto disponendo tre carte in fila sul tavolo: il Re di Denari, il Dieci di Denari e il Nove di Bastoni. L'espressione luttuosa con cui aveva deposto la prima di queste tre carte, e quella gioiosa con cui mostrò la carta seguente, parevano volerci far comprendere che, suo padre essendo venuto a morte, - il Re di Denari rappresentava un personaggio leggermente più anziano degli altri e dall'aspetto posato e prospero, - egli era entrato in possesso d'una cospicua eredità e subito s'era messo in viaggio. Quest'ultima proposizione la deducemmo dal movimento del braccio nel buttare la carta del Nove di Bastoni, la quale - con l'intrico di rami protesi su una rada vegetazione di foglie e fiorellini selvatici - ci ricordava il bosco che avevamo or è poco attraversato. (Anzi, a chi scrutasse la carta con occhio più acuto, il segmento verticale che incrocia gli altri legni obliqui suggeriva appunto l'idea della strada che penetra nel folto della foresta).


Dunque, l'inizio della storia poteva essere questo: il cavaliere, appena seppe d'avere i mezzi per brillare nelle corti più sfarzose, s'affrettò a mettersi in cammino con una borsa colma di monete d'oro, per visitare i più famosi castelli dei dintorni, forse col proposito di conquistarsi una sposa d'alto rango; e accarezzando questi sogni, s'era inoltrato nel bosco.


A queste carte in fila, se ne aggiunse una che annunciava certamente un brutto incontro: La Forza. Nel nostro mazzo di tarocchi questo arcano era rappresentato da un energumeno armato, sulle cui malvage intenzioni non lasciavano dubbi l'espressione brutale, la clava mulinata in aria, e la violenza con cui stendeva al suolo un leone con un colpo secco come si fa con i conigli. Il racconto era chiaro: nel cuore del bosco il cavaliere era stato sorpreso dall'agguato d'un feroce brigante. Le più tristi previsioni furono confermate dalla carta che venne poi, cioè l'arcano dodicesimo, detto Il Penduto, dove si contempla un uomo in brache e camicia, legato a testa in basso, appeso per un piede. Riconoscemmo nell'appeso il nostro giovane biondo: il brigante l'aveva spogliato d'ogni avere, e lasciato a penzolare da un ramo, a testa in giù.


Respirammo di sollievo alla notizia che ci recò l'arcano La Temperanza, posato sul tavolo dal nostro commensale con espressione di riconoscenza. Da esso apprendemmo che l'uomo penzoloni aveva sentito un passo avvicinarsi e il suo occhio capovolto aveva visto una fanciulla, forse figlia d'un boscaiolo o d'un capraio, che avanzava, nudi i polpacci, per i prati, reggendo due brocche d'acqua, certo di ritorno dalla fonte. Non dubitammo che l'uomo a testa in giù venisse liberato e soccorso e restituito alla sua positura naturale da quella semplice figlia dei boschi. Quando vedemmo calare l'Asso di Coppe, su cui era disegnata una fonte che scorre tra muschi fioriti e frulli d'ali, fu come se sentissimo lì vicino il fiottare d'una sorgente e l'ansare dell'uomo che si dissetava bocconi.


Ma ci sono fonti, - qualcuno tra noi certo penso, - che, appena se ne beve, accrescono la sete, anziché placarla. Era prevedibile che tra i due giovani s'accendesse - appena il cavaliere avesse superato il suo capogiro - un sentimento che andava al di là della gratitudine (da una parte) e della pietà (dall'altra), e che questo sentimento trovasse subito modo d'esprimersi - complice l'ombra del bosco - in un abbraccio sull'erba dei prati. Non per nulla la carta che venne dopo fu un Due di Coppe ornato dal cartiglio " amor mio" e fiorito di nontiscordardimé: indizio più che probabile d'un incontro amoroso.

Già ci disponevamo - soprattutto le dame della compagnia - a goderci il seguito d'una tenera vicenda amorosa, quando il cavaliere posò un'altra carta di Bastoni, un Sette, dove tra gli scuri tronchi della foresta pareva di veder allontanarsi la sua ombra sottile. Non c'era da illudersi che le cose fossero andate altrimenti: l'idillio boschivo era stato breve, povera giovane, il fiore colto sul prato e lasciato cadere, l'ingrato cavaliere nemmeno si volta indietro a dirle addio.

A questo punto era chiaro che cominciava una seconda parte della storia, forse con un intervallo di tempo in mezzo: il narratore aveva infatti cominciato a disporre altri tarocchi in una nuova fila, affiancata alla prima, sulla sinistra, e posò due carte, L'imperatrice e l'Otto di Coppe . L'improvviso cambiamento di scena ci lasciò sconcertati per un momento: ma la soluzione non tardò a imporsi - credo - a tutti noi, ed era che il cavaliere avesse finalmente trovato ciò che andava cercando, una sposa d'alto e dovizioso lignaggio, quale quella che vedevamo lì effigiata, una testa coronata addirittura, col suo scudo di famiglia e la sua faccia insipida, e anche un po' più vecchia di lui, come notarono certamente i più maligni tra noi, - e un vestito tutto ricamato d'anelli intrecciati come a dire: "sposami sposami". Invito prontamente raccolto, se è vero che la carta di Coppe suggeriva un banchetto di nozze, con due file di convitati che brindavano ai due sposi in fondo al tavolo dalla tovaglia inghirlandata.

La carta che fu posata poi, il Cavaliere di Spade , annunciava, comparendo in tenuta di guerra, un imprevisto: o un messaggero a cavallo aveva fatto irruzione nella festa portando una notizia inquietante, o lo sposo in persona aveva abbandonato il banchetto di nozze per accorrere armato nel bosco a un mistèrioso richiamo, o forse le due cose insieme: lo sposo era stato avvertito di un'apparizione imprevista e subito aveva imbracciato le armi ed era saltato in sella. (Fatto esperto dalla passata avventura, egli non metteva il naso fuori di casa se non armato di tutto punto).

Attendevamo impazienti un'altra carta più esplicativa; e venne Il Sole. Il pittore aveva rappresentato l'astro del giorno nelle mani d'un bambino che corre, anzi vola sopra un vario e spazioso paesaggio.


L'interpretazione di questo passo del racconto non era facile: poteva voler dire semplicemente "era una bella giornata di sole" e in questo caso il nostro narratore sprecava le sue carte per riferirci particolari inessenziali. Forse più che sul significato allegorico della figura conveniva soffermarsi su quello letterale: un bambino semi nudo era stato visto correre nelle vicinanze del castello dove si celebravano le nozze, ed era per inseguire quel monello che lo sposo aveva disertato il banchetto.

Ma non andava trascurato l'oggetto che il bambino trasportava: quella testa raggiante poteva contenere la soluzione dell'enigma. Tornando a posare lo sguardo sulla carta con cui il nostro eroe s'era presentato, ripensammo ai disegni o ricami solari che egli portava sul mantello quand'era stato attaccato dal brigante: forse quel mantello,che il cavaliere aveva dimenticato nel prato dei suoi fugaci amori, lo si vedeva ora sventolare per la campagna come un aquilone,ed era per recuperarlo che egli si era lanciato all'inseguimento del monello, oppure per la curiosità di scoprire come mai era finito là, cioè quale legame intercorreva tra il mantello,il bambino e la giovane del bosco.

Questi interrogativi speravamo ci fossero chiariti dalla carta seguente, e quando vedemmo che essa era La Giustizia ci convincemmo che in quest'arcano - il quale non mostrava soltanto, come nei comuni mazzi di tarocchi, una donna con la spada e la bilancia, ma anche, sullo sfondo (oppure, a seconda di come si guardava, su di una lunetta sovrastante la figura principale) un guerriero a cavallo (o un'amazzone?) in armatura, che muove all'assalto, - era racchiuso uno dei capitoli più fitti d'avvenimenti della nostra storia. Non ci restava che azzardare delle congetture. Per esempio: mentre stava per raggiungere il monello con l'aquilone, l'inseguitore s'era visto sbarrare il passo da un altro cavaliere, armato di tutto punto.

Cosa potevano essersi detti? Tanto per cominciare: - Chi va là!
E il cavaliere sconosciuto s'era scoperto il viso, un viso di donna nel quale il nostro commensale aveva riconosciuto la sua salvatrice del bosco, fatta più piena e risoluta e calma, con un melanconico sorriso appena accennato sulle labbra.
- Che mai cerchi da me? - egli doveva averle allora chiesto.
- Giustizia! - aveva detto l'amazzone. (La bilancia appunto alludeva a questa risposta).

Anzi: a pensarci bene, l'incontro poteva esser avvenuto così: un'amazzone a cavallo era uscita dal bosco, alla carica (figura sullo sfondo o lunetta) e gli aveva gridato: - Alto là! Sai chi stai inseguendo?
- Chi mai?
- Tuo figlio! - aveva detto la guerriera scoprendosi il volto (figura in primo piano).
- Che posso fare? - doveva aver domandato il nostro, preso da un rapido e tardivo rimorso.
- Affrontare il giudizio - (bilancia ) - di Dio! Difenditi! - e aveva (spada) brandito la spada.

"Ora ci racconterà il duello", pensai, e difatti la carta buttata giù in quel momento fu lo sferragliante Due di Spade . Volavano tagliuzzate le foglie del bosco e le piante rampicanti s'attorcigliavano alle lame. Ma lo sguardo sconfortato che il narratore rivolgeva a questa carta non lasciava dubbi sull'esito: la sua avversaria si rivelava una spadaccina agguerrita; toccava a lui, adesso, giacere sanguinante in mezzo al prato.

Rinviene, apre gli occhi, e cosa vede? (Era la mimica - un po' enfatica, a dire il vero - del narratore che ci invitava ad attendere la carta seguente come una rivelazione). La Papessa: misteriosa figura monacale incoronata. Era stato soccorso da una monaca? Gli occhi con cui fissava la carta erano pieni di raccapriccio. Una strega? Egli levava le mani supplichevoli in un gesto di terrore sacrale. La gran sacerdotessa d'un culto segreto e sanguinario?

- Sappi che nella persona della fanciulla tu hai offeso - (cos'altro poteva avergli detto, la papessa, per provocare in lui quella smorfia di terrore?) -tu hai offeso Cibele, la dea a cui è sacro questo bosco. Ora sei caduto in nostra mano.
E cosa poteva aver risposto lui, se non un supplice balbettio: - Espierò, propizierò, mercé...
- Ora il bosco ti avrà. Il bosco è perdita di sé, mescolanza. Per unirti a noi devi perderti, strappare gli attributi di te stesso, smembrarti, trasformarti nell'indifferenziato, unirti allo stuolo delle Ménadi che corre urlando nel bosco.

- No! - era il grido che vedemmo uscire dalla sua gola ammutolita, ma già l'ultima carta completava il racconto, ed era l' Otto di Spade, le lame taglienti delle scarmigliate seguaci di Cibele s'avventavano addosso a lui, straziandolo.

----------------------------

I miei precedenti articoli sulla letteratura combinatoria:

Letteratura combinatoria (1)

Letteratura combinatoria (2)

Letteratura combinatoria (3): Composizione n°1