domenica 25 aprile 2010

Elogio della brevità


Per sviscerare il tema della brevità in letteratura, una delle forme magiche che assumono le parole, bisognerebbe avere a disposizione uno spazio lunghissimo, tanto l’argomento è vasto. Si pensi solo agli aforismi, micro-testi di un’espressività fulminante, come questo, che si addice bene al caso nostro, tratto dai Pensieri spettinati di Stanislaw Jerzy Lec: «L'uomo nasce, vive e muore nello spazio di una frase».

Perciò ci limiteremo a qualche breve (elementare, no!) indicazione, cominciando da Italo Calvino che, volendo mettere insieme una collezione di racconti d'una sola frase, o d'una sola riga, affermava di non averne trovato nessuno che superava quello dello scrittore guatemalteco Augusto Monterroso: «Al suo risveglio, il dinosauro era ancora lì».

Nel 1906 comparvero sul Matin dei «romanzi in tre righe» di questo tono: «Il signor Jules Kerzerho era presidente di una società di ginnastica. Il che non gli ha impedito di sfracellarsi tentando di saltare su un tram in corsa, a Rueil». Il bizzarro romanziere era Félix Fénéon.

A volte già nel titolo appare l’omaggio esplicito alla brevità: Racconti in un palmo di mano (Kawabata Yasunari), Novelle da un minuto (István Örkény), Racconti brevi e straordinari (Jorge L. Borges e Adolfo Bioy Casares), Centuria. Cento piccoli romanzi fiume (Giorgio Manganelli), Tragedie in due battute (Achille Campanile).

Discorrendo di brevità, viene naturale chiedersi, per quel gusto un po’ infantile dei primati, quale sia il testo letterario più breve. Nel campo degli epigrammi è considerato il più breve epigramma mai concepito quello di Franco Fortini che dice: «Carlo Bo: No». Poiché Carlo Bo è il titolo, ne consegue che l’epigramma in questione è composto dal monosillabo «No» (1).

Ha fatto di meglio però l’ingegnere francese François Le Lionnais, grande amico di Duchamp con cui giocava a scacchi, fondatore insieme a Raymond Queneau dell’Oulipo (Ouvroir de Littérature Potentielle), gruppo di scrittori e matematici dedito a escogitare bizzarre invenzioni partendo da regole ben precise. Le Lionnais ha scritto una poesia, Reduction d'un poème à une seule lettre, formata da una sola lettera: «T...............», che certo risente dello spirito dadaista.

Luis Felipe Pineda scrive poesie di un solo verso: «Amo il twist della mia sobrietà», «Non dirò che un rospo sia», come riferisce Enrique Vila-Matas in Bartleby e compagnia. (2)

Il poeta Saverio Ascari di Canossa, un paese vicino a Reggio Emilia, ha composto poesie tutte rigorosamente di una sola parola. Ce n’è una che s’intitola Colore e fa: «Blu». (3) Notizie su Ascari si trovano in Silenzio in Emilia di Daniele Benati, scrittore che ha curato, fra le altre cose, le Opere complete di Learco Pignagnoli, personaggio unico, inedito e fuori misura, autore di opere di una brevità sconvolgente, come la n. 1: «Conoscevo uno che sbagliava sempre le parole. Una volta voleva dire polipo, ha detto fluido», o la n. 67: «Cosa mi son venuti a dire l’altro giorno, che non mi ricordo più».


Questo articolo è stato scritto dall’amico Paolo Albani (di cui ho parlato più volte: qui la biografia che compare sul suo sito), per la rivista di letteratura per ragazzi Andersen, libri & idee - scuola & biblioteca, n. 266, gennaio 2010. Al testo ho aggiunto come note integrative alcuni brani tratti da Una divagazione sulla brevità con la quale lo stesso Albani ha concluso il suo intervento sull’epigramma in occasione degli incontri della Scuola di retorica 2 tenutisi a Bologna nell’aprile 2004.

NOTE:
(1) Giorgio Bertone scrive: «Carlo Bo in realtà è il titolo; dunque il monosillabo "No" è la più breve poesia italiana e forse il più breve epigramma mai concepito; che sia inoltre una negazione su rima tronca, 'comica', s'addice perfettamente alla struttura e al genere in questione» (Breve dizionario di metrica italiana, Torino, Einaudi, 1999).

(2) Una volta Pineda scrisse su una cartina questa poesia: «La stupidità non è il mio forte»; poi arrotolò la cartina trasformandola in una sigaretta che si fumò tranquillamente. Quando ebbe terminato di fumarsi la sua poesia disse sorridendo: «L'importante è scriverla».

(3) Un’altra poesia, che ha per titolo «Cavallo», recita così: Animale. In un’altra ancora, intitolata «Elettrodomestico», si legge: Frigorifero oppure Televisione.

mercoledì 21 aprile 2010

Ten Weary, Footsore Travellers (Dieci stanchi viandanti)


Ten Weary, footsore travelers,
All in a woeful plight,
Sought shelter at a wayside inn
One dark and stormy night.

”Nine rooms, no more” - the landlord said, -
Have I to offer you.
To each of you a single bed,
But the ninth must serve for two.

A din arose. The troubled host
Could only scratch his head,
For those tired men no two
Would occupy one bed.

The puzzled host was soon at ease
- He was a clever man -
And so to please his guests devised
This most ingenious plan.

In room marked A, two men were placed,
The third was lodged in B,
The fourth to C was then assigned,
The fifth retired in D.

In E the sixth he turned away,
In F the seventh man,
The eighth and ninth in G and H,
And then to A he ran,

Wherein the host as I have said,
Had laid two travelers by;
Then taking one -the tenth and last-
He lodged him safe in I.

Nine single rooms -a room for each-
Were made to serve for ten:
And this it is that puzzles me
And many wiser men.

Questo paradosso in versi, di autore anonimo, nasconde un grosso errore, che i miei lettori sapranno trovare. La poesia fu pubblicata per la prima volta in Current Literature, vol. 2, nell’aprile del 1889. Io l’ho trovata nella miscellanea Imaginary Numbers. An Anthology of Marvelous Mathematical Stories, Diversions, Poems and Musings, edita da William Frucht per John Wiley & Sons, New York, 1999. Qui di seguito la mia traduzione:

Dieci stanchi viandanti, il piede affaticato
tutti in una condizione pietosa,
riparo in un ostello hanno cercato
in una notte buia e tempestosa.

“Nove stanze, non di più. – disse l’esercente -
Altro non c’è, nessuna doppia.
In otto dormirà un uomo solamente
E la nona servirà per una coppia”.

Ci fu del malumore. L’oste turbato
si grattava pensoso il cervelletto,
ché del gruppo di dieci appena arrivato
nessuno voleva dividere il letto.

Il perplesso oste presto si rilassò
- era uomo di mente operosa –
e per risolvere il problema escogitò
la soluzione più ingegnosa.

Nella stanza A mise due persone,
il terzo fu alloggiato in B,
il quarto in C trovo sistemazione,
il quinto fu ospitato in D.

In E il sesto appoggiò la sacca,
in F mise il settimo viandante,
l’ottavo e il nono in G e H,
poi corse verso A ansimante.

L’oste, come ho già ricordato,
aveva lasciato due persone lì:
ne prese uno, il decimo arrivato,
e lo alloggiò al caldo in I.

Nove camere singole, una per viandante,
per dieci fecero da pensione:
io ciò lo trovo sconcertante
e con me tante sagge persone.

Suggerimento:

(If we reflect on what he's done,
We'll see we're not insane.
Two men in A he's counted one,
Not once but once again...)


sabato 17 aprile 2010

Parole inventate 3: il gliglico di Rayuela

Il gioco del mondo (Rayuela), pubblicato in lingua originale nel 1963 e in Italia da Einaudi nel 1969 e poi nel 2002, è il libro più importante scritto dallo scrittore argentino Julio Cortázar (1914–1984). Opera tortuosa, affascinante, complessa, a suo modo filosofica, Rayuela è stata a torto considerata un romanzo combinatorio, per via della sua struttura a incastro che consente due diverse modalità di lettura. Come affermò lo stesso autore in un’intervista a Omar Prego, nessun artificio combinatorio è però alla base della sua costruzione, maturata man mano che procedeva la scrittura. Così l’autore illustra le modalità di lettura nella Tavola d’orientamento che precede il testo:

“A modo suo questo libro è molti libri, ma soprattutto è due libri. Il primo, lo si legge come abitualmente si leggono i libri, e finisce con il capitolo 56. (...) Il secondo, lo si legge cominciando dal capitolo 73 e seguendo l'ordine indicato a piè pagina d'ogni capitolo...".

Tra le numerosissime riflessioni che il romanzo suscita, in questo articolo voglio occuparmi di una cosa che potrebbe sembrare di poco conto: spero di convincervi del contrario. Cortázar è infatti un onomaturgo, un inventore di parole, addirittura ideatore di un linguaggio, il gliglico, che il protagonista, Horacio Oliveira, condivide con Lucia, “la Maga”, nei momenti di più appassionata intimità. Un idioma giocoso, musicale, segreto, che, separandoli dal resto del mondo, rende i due amanti ancor più complici e vicini. Penso che ciascuno di noi abbia provato, magari solo da bambino/a, l’esperienza emozionante di parlare un linguaggio esclusivo, che gli altri non possono capire (il farfallino è l’esempio più noto – l’efesefempiofo piufu nofotofo). E, siccome si cerca di ritrovare il bello del nostro passato, forse anche perché nell’amore la componente giocosa è fondamentale, tra persone che si amano non è inconsueto che l’intimità sia fatta anche di parole segrete, magari prive di un significato definito, ma ricorrenti per via del loro suono, oppure perché evocano sensazioni condivise (una specie di “lessico famigliare” ancor più ristretto). Il merito di Cortázar è quello di aver ricordato questo aspetto importante della nostra affettività.

Il gliglico compare per la prima volta nel testo in un momento particolare, all’inizio della crisi che porterà alla rottura tra i due protagonisti, una rottura voluta più che altro da Oliveira, in cerca di qualcosa che egli stesso non sa definire con precisione (dice “un centro”). In una lunga conversazione (capitolo 20) in cui i due riflettono sulla loro unione e sui loro rapporti con il gruppo di amici di cui entrambi fanno parte, tra pianti e risate, c’è anche l’occasione per una finta scenata di gelosia (un altro aspetto dell’amore a due in cui tutti possiamo ritrovarci):

– Decime cómo hace el amor Ossip – murmuró Oliveira, apretando los labios contra los de la Maga-.
– Pronto que se me sube la sangre a la cabeza, no puedo seguir así, es espantoso.
– Lo hace muy bien – dijo la Maga mordiéndose el labio –. Muchísimo mejor que vos y más seguido.
– ¿Pero te retila la murta? No me vayas a mentir. ¿Te la retila de veras?
– Muchísimo. Por todas partes, a veces demasiado. Es una sensación maravillosa.
– ¿Y te hace poner con los plíneos entre las argustas?
– Sí, y después nos entreturnamos los porcios hasta que él dice basta basta, y yo tampoco puedo más, hay que apurarse comprendés. Pero eso vos no lo podés comprender, siempre te quedás en la gunfia más chica.
– Yo y cualquiera – rezongó Oliveira, enderezándose –. Che, este mate es una porquería, yo me voy un rato a la calle.
– ¿No querés que te siga contando de Ossip? – dijo la Maga –. En glíglico.
– Me aburre mucho el glíglico. Además vos no tenés imaginación, siempre decís las mismas cosas. La gunfia, vaya novedad. Y no se dice – contando de –.
– El glíglico lo inventé yo – dijo resentida la Maga –. Vos soltás cualquier cosa y te lucís, pero no es el verdadero glíglico.

Che la traduzione di Flaviarosa Nicoletti Rossini rende così nell’edizione italiana:

– Dimmi come fa l’amore Ossip, – mormorò Oliveira, premendo le labbra contro quelle della Maga. – Fa’ presto, che mi va il sangue alla testa, non posso continuare così, è spaventoso.
– Lo fa benissimo, - disse la Maga, mordendogli il labbro. – Molto ma molto meglio di te, e più a lungo.
– Ma ti retilla la murta? Non dirmi bugie. Ti retilla davvero?
– Moltissimo. Dappertutto, qualche volta troppo. È una sensazione meravigliosa.
– E ti fa mettere i plinei fra le arguste?
– Sì, e poi ci intrattorniamo i porzi finché lui non mi dice basta basta, e anch’io non ne posso più, bisogna fare in fretta, capisci. Ma forse non lo puoi capire tu, ti limiti a restare nella scoccia più piccola.
– Io e chiunque altro, - brontolò Oliveira, raddrizzandosi. – Eh, questo mate è schifoso, scendo un attimo in strada.
– Non vuoi che continui a contarti di Ossip? – disse la Maga, - In gliglico’
– Non sai quanto mi annoi il gliglico. E poi non hai fantasia, dici sempre le stesse cose. La scoccia, che novità. E poi, non si dice “contare”.
– Il gliglico l’ho inventato io, - disse la Maga risentita. – Tu tiri fuori la prima cosa che ti viene e ti dài delle arie, ma non è vero gliglico.

Anche se a prima vista sembra incomprensibile, il linguaggio è inventato da Cortázar con estrema cura: il gliglico è dal punto di vista sintattico e grammaticale uno spagnolo corretto. Egli usa combinazioni di suoni idiomatiche della lingua, utilizza verbi e nomi riconoscibili, e li inserisce in frasi e periodi correttamente strutturati. Ciò che rompe le regole si trova a livello del lessico: molte parole sono parole–valigia, costruite combinando sillabe o gruppi di suoni di parole esistenti. Molti hanno pensato che l’autore sia stato influenzato dal Jabberwocky di Lewis Carroll, e in effetti egli conosceva bene la letteratura inglese, al punto da dichiarare di aver imparato dagli inglesi il potere dell’ironia. Va ricordata anche (cap. 18) la citazione, scorretta, da parte di Oliveira di un verso della poesia di Carroll, con un of in più: “Beware of the Jabberwocky my son.”

Cortázar ha dichiarato poi che “Il gliglico di Rayuela è di solito associato con l’erotismo: l’intenzione era che questa lingua inventata potesse veicolare ciò il linguaggio convenzionale non riesce a fare.” Curiosamente Alice, dopo aver ascoltato la recita del Jabberwocky, fa un commento che sembra suggerire proprio questi caratteri: “In qualche modo sembra che mi riempia la testa di idee, anche se non so proprio che cosa siano!”.

Il trionfo del gliglico è il capitolo 68 (da inserire prima del capitolo 9 nell’ipotesi alternativa di lettura) in una circostanza in cui l’amore tra Horacio e la Maga è al suo apice e nessuna nube ancora offusca l’orizzonte. Qui è la voce narrante dell’autore a descrivere una scena erotica:

Apenas él le amalaba el noema, a ella se le agolpaba el clémiso y caían en hidromurias, en salvajes ambonios, en sustalos exasperantes. Cada vez que él procuraba relamar las incopelusas, se enredaba en un grimado quejumbroso y tenía que envulsionarse de cara al nóvalo, sintiendo cómo poco a poco las arnillas se espejunaban, se iban apeltronando, reduplimiendo, hasta quedar tendido como el trimalciato de ergomanina al que se le han dejado caer unas fílulas de cariaconcia. Y sin embargo era apenas el principio, porque en un momento dado ella se tordulaba los hurgalios, consintiendo en que él aproximara suavemente sus orfelunios. Apenas se entreplumaban, algo como un ulucordio los encrestoriaba, los extrayuxtaba y paramovía, de pronto era el clinón, la esterfurosa convulcante de las mátricas, la jadehollante embocapluvia del orgumio, los esproemios del merpaso en una sobrehumítica agopausa. ¡Evohé! ¡Evohé! Volposados en la cresta del murelio, se sentían balpamar, perlinos y márulos. Temblaba el troc, se vencían las marioplumas, y todo se resolviraba en un profundo pínice, en niolamas de argutendidas gasas, en carinias casi crueles que los ordopenaban hasta el límite de las gunfias.

Ecco la traduzione di Flaviarosa Nicoletti Rossigni:

Appena lui le amalava il noema, a lei sopraggiungeva la clamise e cadevano in idromorrie, in selvaggi ambani, in sossali esasperanti. Ogni volta che lui cercava di lequire le incopeluse, si avviluppava in un grimado lamentoso e doveva invulsinarsi di fronte al novelo, sentendo in qual modo a poco a poco le arniglie si specunnavano, peltronandosi, redduplinandosi, fino a restare come il trimalciato di ergomanina al quale son state lasciate cadere delle fillule di cariconcia. E tuttavia era appena il principio, perché a un certo punto lei si tortorava gli irgugli, permettendogli di avvicinarvi dolcemente gli orfenni. Appena si intrapiuvavano, qualcosa simile ad un ulucordio li faceva raccrestare, li contrunniva e li parammoveva, all'improvviso era l’urgano, la stervorosa convolcante delle materglie, l'annesante imboccapluvia dell'orgomio, gli esproemi del mirpasmo in una surrumitica argopausa. Evohé Evohé! Avvolpati nella cresta del morelio, si sentivano balparamare, perlacei e marili. Tremava il troc, erano vinte le marpenne. e tutto si ressogliva in un profondo pinnice, in nioremi d'argatesi garze, in carenie quasi crudeli che li artavagliavano fino al limite delle cunfee.

E il testo originale recitato dallo stesso autore


Fu la Perfida Nera la prima a parlare del gliglico in questo blog: a lei è dedicato l'articolo.

venerdì 16 aprile 2010

La portata del condotto

Sto seguendo con interesse i resoconti puntuali che Gianluigi Filippelli offre su Scienze Backstage dei lavori della terza edizione di Comunicare Fisica, il congresso di Frascati dedicato alla comunicazione e divulgazione della fisica, che riunisce ricercatori, insegnanti e, da quest'anno, blogger, che si occupano della diffusione della fisica.

Oggi è intervenuto Davide Bennato (Università di Catania) su La comunicazione scientifica: canoni personaggi e modi, una relazione che ha analizzato i fini e le modalità della comunicazione di notizie e temi di interesse scientifico. Ho molto apprezzato lo schema fornito dal relatore sui modelli di comunicazione, sintetizzabili in:

1) Modello positivista, quello classico e tradizionale, nel quale la scienza viene concepita come strumento del sapere. Il pubblico è un insieme di persone da educare e lo stile è quello argomentativo. Di conseguenza il mezzo di diffusione per eccellenza è il libro, in forma di saggio. La comunità dei comunicatori è formata da scienziati o da persone vicine alla comunità scientifica. Punti di riferimento di questo modello sono Piero Angela e Roberto Vacca.

2) Modello sistemico, più recente, in cui la scienza viene considerata come un modo per risolvere problemi (in stile popperiano). I comunicatori sono in questo caso attenti a descrivere anche le conseguenze sociali della scienza. Il pubblico è considerato come un gruppo di persone da coinvolgere. La comunicazione diventa una analisi del problema, e i mezzi privilegiati sono radio e televisione. La comunità di riferimento è quella dei giornalisti. Riferimenti di questo modello sono Mario Tozzi e Piergiorgio Odifreddi.

3) Modello postmoderno, nel quale la scienza è considerata una wunderkammer, una camera delle meraviglie. In questo caso la comunicazione è più legata all'aneddoto e quindi il modo migliore per comunicare con il pubblico è stupirlo. Lo stile comunicativo si avvale dell’immaginazione, con mezzi come televisione e cinema. La comunità di riferimento sono quindi giornalisti e gli scrittori (o artisti). Il modello di riferimento è ancora Tozzi, con l'aggiunta del Trio Medusa ne La Gaia Scienza.

Non so quali siano i giudizi di valore di Bennato, ma l’ultimo modello a me sembra più un ritorno alle origini che un’evoluzione. La comunicazione scientifica con effetti speciali mi ricorda proprio l’esposizione del monstrum, la cosa curiosa e strana, al limite il freak, l’uomo–elefante, che induce a tutto fuorché a riflettere sull’oggetto e i processi delle scienze.

Lo spirito di questo blog è assai trasversale, e mi è venuto in mente Franco Battiato, l'artista catanese che scrisse agli inizi di carriera un brano “sperimentale” che contiene l’unico riferimento alla fisica della musica leggera italiana. Si tratta di Pollution, dall’album omonimo (1972). Ecco il testo, con chiare citazioni della fisica che si fa al liceo:

La portata di un condotto
è il volume liquido
che passa in una sua sezione
nell’unità di tempo:
e si ottiene moltiplicando
la sezione perpendicolare
per la velocità che avrai del liquido.

A regime permanente
la portata è costante
attraverso una sezione del condotto.

Atomi dell’idrogeno
campi elettrici ioni-isofoto
radio litio-atomico
gas magnetico.
Ti sei mai chiesto quale funzione hai?




mercoledì 14 aprile 2010

Carnevale della Matematica n. 24


Sono gli amici di Gravità Zero ad ospitare questo mese il Carnevale della Matematica, giunto alla sua edizione n. 24, con la quale la manifestazione compie due anni. Come al solito, i contributi sono numerosi, vari ed egualmente stimolanti.

Io ho partecipato con Complementi ai fondamenti, una piccola raccolta di limerick umoristici di argomento matematico che va ad aggiungersi a quelli che ho presentato nelle precedenti edizioni, e Considerazioni sull'uguaglianza, in cui il concetto di uguaglianza viene analizzato sia dal punto di vista matematico sia da quello del dizionario, con una piccola coda di attualità politica.

Non perdete l'occasione di avvicinarvi a un mondo, quello della matematica, a torto considerato lontano dalla realtà e dall'esperienza: visitando il Carnevale troverete riflessioni interessanti e sorprese inaspettate (come una canzone dedicata al Pi greco della grande Kate Bush):


lunedì 12 aprile 2010

Considerazioni sull'uguaglianza

Dividere la torta in sei parti uguali
L’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge
(a+b)2=a2+2ab+b2
Liberté Egalité Fraternité
3 + 2 = 1 + 4

Che cosa significa la parola uguaglianza? E che senso ha il simbolo = che utilizziamo dalla scuola elementare e che i matematici hanno incominciato ad usare nel XVI secolo? O, piuttosto, quali sono i suoi significati? Una prima idea è possibile averla consultando il dizionario. Ad esempio, il piccolo Devoto–Oli afferma:

uguaglianza (o eguaglianza) s. f. 1. Presenza in due o più persone o cose di caratteristiche e proprietà identiche: u. di forma tra due oggetti; u. di forze tra due avversari. / In mat., godimento di proprietà comuni da parte di più enti; membri dell’u.: gli enti che sono tra loro uguali; segno di u., il segno =, che lega i due membri dell'uguaglianza. 2. Ideale etico-giuridico o etico-politico, secondo cui i membri di una collettività devono essere considerati alla stessa stregua relativamente a determinati fatti o valori; la costituzione garantisce l'u. dei cittadini di fronte alla legge; lottare per l'u. sociale. 3. l'uniformità: l'u. di un terreno.

E, per uguale:

uguale (meno com. eguale) agg., s. m. e f. e avv. 1. Che presenta identità di caratteristiche, proprietà, qualità in un raffronto comparativo: la tua automobile è u. alla mia; vorrei una penna u. a quella; due ragazzi u. d'età, di carattere; tutti abbiamo u. diritti e u. doveri // II concetto di identità, applicato al comportamento si risolve in un'idea di indiscriminazione (la legge è u. per tutti) e di coerenza (un uomo sempre u. a se stesso) / Con riferimento a una idea di durata o estensione indica uniformità (andatura u.; parlare con voce u.), materialmente identificabile in una assenza di asperità e di discontinuità (pianura u.; il filo non è venuto tutto u.) // In mat., secondo il sign. più comune, due elementi a e b si dicono uguali (a=b) se sono la stessa cosa, cioè se coincidono. 2. s. m. e f. Appartenenti alla stessa posizione sociale: rispettoso con i superiori, cortese con gli u. / Pari per valore: non ha l’u. per bravura / Con valore neutro, in espressioni denotanti indifferenza: se non vuoi andarci, per me è u. 3. Come avv., allo stesso modo, nella stessa quantità: due ragazzi alti uguale; se tu sei stanco, io sono stanco u.

Le parole più utilizzate da un noto dizionario per indicare il concetto di "uguaglianza" e "uguale" sono identità, uniformità, somiglianza, coerenza, coincidenza, indifferenza. Ciascuno di questi termini è a sua volta definito nel dizionario utilizzando altre parole, a loro volta definite da altre. Siccome i dizionari contengono un numero finito di parole, non ci sono che due risultati:
– seguendo la catena delle definizioni, si ritrova un termine già consultato;
– alcune parole non ci sono.

La prima soluzione è quella adottata dai dizionari, che non se ne fanno un problema. Nella matematica, invece, dove la precisione è una necessità, si preferisce la seconda. Un certo numero di enti e di simboli primitivi non sono definiti: servono da mattoni di base per la costruzione della teoria.

È il caso del nostro =. Bisogna allora fare emergere il suo significato attraverso l’analisi di situazioni in cui interviene.

Ecco ad esempio le prime righe del primo volume degli “Elementi di Matematica” di Bourbaki, un vasto trattato scritto con lo scopo di fondare l'intera matematica sulla teoria degli insiemi attraverso testi che fossero il più possibile rigorosi e generali, cominciando dall’inizio. Ed è un inizio piuttosto indigesto:

“Dai greci, chi dice matematica dice dimostrazione. Alcuni dubitano che al di fuori delle matematiche esistano dimostrazioni nel senso preciso e rigoroso che questo termine ha ricevuto dai greci e che si intende dare in questa opera. Si ha il diritto di dire che il significato del termine dimostrazione non è variato, poiché ciò che è stato una dimostrazione per Euclide, lo è tuttora ai nostri occhi; ed in epoche nelle quali tale nozione ha rischiato di perdersi e la matematica si è trovata in pericolo, è presso i greci che si è ricercato il modello. Ma a questa venerabile eredità si sono aggiunte, da un secolo, importanti scoperte. In effetti l'analisi del meccanismo di dimostrazione nei migliori testi di matematica ha permesso di liberare la struttura dal doppio punto di vista del vocabolario e della sintassi. Si arriva quindi alla conclusione che un testo di matematica sufficientemente esplicito può essere espresso in un linguaggio convenzionale comprendente solamente un piccolo numero di termini invariabili assemblati mediante una sintassi che consisterà in un piccolo numero di regole inviolabili. Un testo così concepito si dice formalizzato. La descrizione di una partita di scacchi secondo la usuale notazione, una tavola di logaritmi sono testi formalizzati; (…). La verifica di un testo formalizzato non richiede che una attenzione meccanica; le sole cause di errore saranno dovute alla lunghezza o alla complessità del testo. (…) Per contro, in un testo non formalizzato si è esposti ad errori di ragionamento che rischiano, ad esempio, di causare un uso improprio dell'intuizione o del ragionamento per analogia.”

Nel primo volume dell’opera, dedicato alla Teoria degli Insiemi (1954, preceduto da un Fascicolo dei risultati nel 1939), il primo paragrafo è dedicato ai termini e alle relazioni. Esso dice che i simboli di una teoria matematica T sono
1) i simboli per gli operatori logici relazionali: ∧, ∨, ⇒, ⇔
2) le lettere minuscole e maiuscole latine, cui eventualmente sono assegnati degli apici: a, A, A’, A”, ecc.
3) i simboli specifici che dipendono dalla teoria considerata. “Nella teoria degli insiemi si utilizzano solo i due segni specifici = e ∈”

Così, in questo celebre trattato, l’autore (in realtà gli autori che si celano dietro questo pseudonimo) ha deciso di non tentare di definire il simbolo =. Esso è solamente un segno specifico della teoria degli insiemi! Viene la tentazione di tornare alla definizione del dizionario.

Restiamo in campo matematico e esaminiamo qualche altro esempio. Una volta si diceva che due triangoli sono uguali se riproducendo il primo su carta e spostando il calco ottenuto sopra l’altro, esso si poteva far coincidere con il secondo. In un testo di geometria elementare del 1898 scritto dal matematico francese Jacques Hadamard (che due anni prima aveva dimostrato il teorema dei numeri primi) si diceva già nell’introduzione che:

2. Figure uguali.— Una figura qualsiasi può essere trasformata in una infinità di modi nello spazio senza deformazione, come avviene per i corpi solidi usuali.

Si definiscono FIGURE UGUALI due figure che possono essere trasportate una sull’altra, in modo da fare coincidere esattamente tutte le loro parti: in una parola due figure uguali sono la stessa identica figura in due posti differenti”.

Il significato della definizione è comprensibile, ma pone, a pensarci bene, seri problemi. Su questa base, esisterebbe un unico quadrato di un metro di lato, e questo unico quadrato ideale e astratto “si incarnerebbe” ora in posto ora nell’altro, spostandosi senza deformarsi. Henri Poincaré ha criticato con forza questo genere di definizioni. Ne La Scienza e l’Ipotesi (1902) diceva ad esempio:

“In effetti questa definizione non definisce nulla; non avrebbe alcun senso per un essere che abitasse un mondo nel quale non esistessero che fluidi. Se ci sembra chiara, è solo perché noi siamo abituarti alle proprietà dei solidi naturali che non differiscono di molto da quelle dei solidi ideali nei quali tutte le dimensioni sono invariabili.”

Se si spinge la definizione di Hadamard un po’ oltre, si può dire che tutti i punti sono uguali perché si può evidentemente farli coincidere spostando uno sull’altro. Tutti i punti sono uguali? Un’affermazione da insufficienza grave a scuola! E allora, quando due triangoli sono uguali? Sono difficoltà come queste che hanno portato a molta cautela nell’uso del termine uguaglianza, che pure era così comodo. È stato necessario introdurre nuove parole, meno immediate e facili per gli studenti di geometria. Si dice talvolta che due triangoli sono isometrici oppure congruenti, riservando la parola uguali alla situazione caricaturale nella quale i due triangoli sono in realtà lo stesso triangolo. Così ad esempio trovo su Ripmat, l’utile sito di Dino Betti di matematica per le superiori:

“Bisogna distinguere fra uguaglianza e congruenza: due cose sono uguali se sono la stessa cosa, cioè se occupano lo stesso spazio nello stesso tempo. Diremo invece che due cose sono congruenti se sono uguali ma occupano spazi diversi nello stesso tempo”.

Si guadagna in precisione, ma si perde in comprensione. Fuori dalle ore di matematica la parola uguale riprende il suo posto, perché è facile da capire, il che tutto quanto si richiede a una parola. D’altra parte chi chiederebbe di dividere una torta in sei fette congruenti?

Facciamo un altro esempio: quando scrivo 3 + 2 = 1 + 1 + 3, voglio dire che 3 + 2 è la stessa cosa che 1 + 1 + 3? Beh, per scrivere 3 + 2 ho battuto tre tasti della tastiera, mentre per 1 + 1 + 3 l’ho dovuto fare cinque volte. Ciò che si vuol dire con questa uguaglianza è altro, e cioè che due “cose” sono uguali allo stesso numero 5. Un po’ come il nostro unico quadrato ideale che si incarnava ora in posto ora nell’altro, il numero 5 apparirebbe sotto diversi travestimenti: 3+2, 2+2+1, Cinque, Five, Fünf, ecc., ma non credo nell’opportunità di inventare nuovi concetti in questo caso. Voglio vedere chi oserà proibire di dire che 7 + 5 = 12!

Insomma lo stesso termine, uguale, può essere utilizzato in un gran numero di contesti diversi, anche a costo di qualche confusione. Bisogna allora seguire il consiglio di Poincaré:

“Fare matematica vuol dire dare lo stesso nome a delle cose diverse.”

Che indica la capacità della matematica di riconoscere in cose apparentemente diverse gli stessi meccanismi di funzionamento. Scoprire un funzionamento comune e dargli un nome.

Torniamo all’uguale in matematica. Matematici, logici e filosofi hanno riflettuto sulle sue proprietà e hanno individuato queste tre:

– Ogni “cosa” è uguale a se stessa (proprietà riflessiva)
– Se una “cosa” è uguale a un’altra, questa seconda è uguale alla prima (proprietà simmetrica)
– Due “cose” uguali ad una stessa terza cosa sono uguali tra di loro (proprietà transitiva).

Quando sono soddisfatte tutte queste proprietà si parla di relazione d’equivalenza e si è autorizzati a utilizzare la parola uguale. Come si vede, la relazione d’equivalenza autorizza l’uso della parola uguale solo se si verificano determinate condizioni. Ciò succede perché è possibile in molti casi applicare diverse relazioni d’equivalenza sullo stesso insieme. Ad esempio:

– all’interno di un gruppo di colleghi ci possono essere persone che hanno lo stesso peso, altre che hanno gli occhi o i capelli dello stesso colore, ecc.;
– i numeri da 1 a 9 sono tutti formati da una sola cifra, ma alcuni sono pari e altri dispari, alcuni sono primi e altri non lo sono, ecc.;
– due triangoli sovrapponibili per un’operazione di movimento nel piano non sono necessariamente gli stessi.

Per evitare confusioni, ci si concentra su una relazione di uguaglianza “dimenticando” le altre, effettuando cioè quella che in algebra relazionale si chiama una proiezione. Così si assiste alla fioritura di una pletora di parole difficili: congruente, isomorfo, omeomorfo, conforme, equipotente, ecc. Quest’abbondanza terminologica è utile agli addetti ai lavori, ma nella vita di tutti i giorni è meglio tagliare una torta in fette uguali.

Eppure un’uguaglianza, anche al di fuori della matematica, non può essere concepita senza avere ben chiara l’esistenza di questa proiezione. Talvolta è implicita, altre volte è meglio esplicitarla. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 incomincia affermando:

Articolo primo –Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti (…)

I rivoluzionari francesi avevano le idee chiare: non hanno mai preteso sostenere che tutti gli uomini sono identici, ma hanno affermato che essi sono uguali nei diritti: il diritto è lo stesso per tutti. In precedenza c’era un diritto per ogni classe sociale (la nobiltà, il clero, il terzo stato): ciascuno “stato” aveva le proprie leggi. La dichiarazione afferma che da allora in poi di legge ne esisteva una sola per tutti. Ma l’esistenza di una stessa legge per tutti significa che gli uomini sono uguali in quanto sono sottoposti alla stessa legge. Non si tratta certo di un’uguaglianza stretta!

La nostra Costituzione stabilisce che:

Art. 3 – Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. (…)

Anche in questo caso, il principio di uguaglianza, che nasce dalla dignità umana, non è dichiarato in termini astratti e generali: tutti i cittadini sono eguali davanti alla legge. Ne discende che non possono essere emanate leggi che creino disparità di trattamento per alcuni. La legge si applica a tutti, governanti e governati, quindi nessuno può porsi al di sopra o al di fuori di essa e i pubblici poteri non possono fare discriminazioni fra i cittadini. In questo senso il principio di eguaglianza formale è strettamente legato al principio di legalità.

Oggi sembra che questa precisazione, “di fronte alla legge”, questa proiezione esplicitata, a qualcuno non basti più. Che avesse ragione Orwell e torto i rivoluzionari francesi e i nostri padri costituenti? Bisognerà aggiornare il Devoto–Oli?

Tutti gli animali sono uguali (ma alcuni sono più uguali degli altri).

***

Nota: Sono in gran parte debitore per queste mie considerazioni dell’articolo Egalité (CNRS, 2009) di Étienne Ghys, Directeur de recherche CNRS, École Normale Supérieure de Lyon, che ho tradotto liberamente, saccheggiato, tagliato, rimaneggiato, adattato per i miei loschi fini. A lui vadano un ringraziamento e 103 scuse.

giovedì 8 aprile 2010

Opinionismi (clerihew politicamente scorretti)



Maurizio Belpietro
si guardava il didietro
anche da vecchio
radendosi allo specchio.


Paolo Bonaiuti:
nemmeno a Gibuti
c’era uno così perfetto
come scendiletto.


Daniele Capezzone
alla rappresentazione
era un vero mago
nel ruolo di Iago.


Giuseppe D'Avanzo
scrisse un romanzo
con il solito bersaglio:
Marco Travaglio.


Feltri Vittorio
già all’oratorio
passava le giornate
a inventare minchiate.


Giuliano Ferrara
non ci stava nella bara:
se lo portarono via
quelli della CIA.


Dietlinde Gruber detta Lilli
odiava quegli imbecilli
(ed eran miriade)
che non leggevano Lilliade.


Lerner Gad
si credeva Galahad
ma era sir Rodney of Id
con la giacca di tweed.


“Straccio” Liguori
contestava i professori
perché il latino
non serve a un lecchino.


Augusto Minzolini
spostò i confini
delle dottrine materialiste:
anche il nulla esiste.


Piero Ostellino
sin da bambino
mostrò del talento
a seguire il vento.


Angelo Panebianco
non era mai stanco
di dir la sua opinione.
Su commissione.


Gianluigi Paragone
con la faccia da terrone
in cambio di due ossi
scodinzolava dietro Bossi.



(grazie a Egidio per le correzioni)


Aggiornamento del 9 aprile 2010

Ecco due gustose aggiunte da parte di B.:


Marco Travaglio
ha più di un bavaglio
direi bavaglino
narciso e bambino


Michele Santoro
si cinge d'alloro
si nomina Vate
per razze dannate.

martedì 6 aprile 2010

La terra non gira intorno al sole


Di Silvio Corradi, nato a Fontanellato (PR) l’11 luglio 1890 non c’è alcuna traccia in rete. Devo pertanto accontentarmi dell’unica fonte biografica che ho a disposizione, cioè quanto dice di lui, nell’indirizzo al lettore che apre la sua opera, l’ing. Aldo Mazza, “già assistente alla Cattedra di Elettrochimica del Politecnico di Milano e già Direttore del Reparto Prove Statiche e di Rottura della Società Aeroplani Caproni in Milano”. Dalle note del pensionato Mazza sappiamo che Corradi era un agricoltore con il pallino delle invenzioni, che aveva già pensato, molto prima degli americani, a un sistema per far piovere bombardando le nuvole con ghiaccio secco e aveva inventato un dispositivo per la regolarizzazione automatica dell’inalveamento dei corsi d’acqua, collaudato con successo sul torrente Parma. Un tipo ingegnoso, che si era meritato trafiletti elogiativi sui giornali dell’epoca, come il Tempo, la Gazzetta di Parma e il Corriere d’informazione. Di Corradi abbiamo anche una fotografia che lo ritrae sessantaduenne nel frontespizio della sua opera più ambiziosa, che costituisce l’oggetto di questo mio articolo. Il libretto che ha attirato la mia curiosità in un mercatino dell’usato ha infatti un titolo importante: La terra non gira intorno al sole. Guardiamo il cielo e potremo capire il vero moto della terra e degli astri ed è stato edito nel 1952 a Cremona, probabilmente a spese dell’autore (poi tradotto e pubblicato anche in francese due anni dopo).

Corradi appartiene alla schiera dei confutatori di Copernico, che vanta rappresentanti sempre più sparuti ma attivi ancor oggi, non necessariamente tra gli estremisti religiosi. Il suo trattatello ignora completamente le scoperte astronomiche degli ultimi due secoli e lo scienziato più recente al quale fa riferimento è von Helmholtz. Di Einstein nessuna traccia, e nessuna degli astronomi del Novecento. Le sue fonti sono scarne: l’Enciclopedia Pomba per la famiglia, UTET, probabilmente l’edizione del 1950 in due volumi, l’Enciclopedia Storica delle Scienze e delle loro applicazioni di Arturo Uccelli, Hoepli, 1940, e due libri del naturalista francese dell’Ottocento J. H. Fabre, La terra (orig. fr. 1865) e Il cielo (orig. fr. 1867), pubblicati entrambi da Sonzogno, rispettivamente nel 1927 e 1928. Ma egli ha dalla sua un grande ingegno e la capacità di rappresentare le sue idee con strumenti semplici ed efficaci: un’arancia infilzata da un pezzo di fil di ferro è la terra con il suo asse, il soffitto e le pareti di una stanza sono la volta celeste con lo zodiaco e i punti cardinali. Costruirà anche un planetario meccanico per illustrare le proprie idee, premiato al “Concorso Internazionale delle invenzioni” di Parigi in quello stesso 1952, tuttavia inspiegabilmente ignorato dal mondo scientifico: “vi furono applausi, ma poi più nulla, il più ermetico silenzio”.

Tutta la sua teoria parte dal fatto che l’asse terrestre è sempre rivolto verso la Stella Polare, vero centro del sistema corradiano. E se l’asse della Terra è sempre parallelo a se stesso, il moto di rivoluzione implica, secondo gli eliocentristi, che il nostro pianeta avanza lungo la sua orbita ora con il polo Nord (da giugno a dicembre), ora con quello Sud (da gennaio a giugno): “Nelle condizioni date, un corpo libero nello spazio non potrà mai obbedire a questo schema di moto pendolare”. Inoltre, in qualsiasi momento dell’anno, in ogni posizione della sua orbita, l’asse terrestre si incontra con la Stella Polare, fatto non spiegabile con il suo moto di rivoluzione. Corradi è pronto a replicare alle possibili obiezioni, come spiega in questo passo:

"Si dice che questo può avvenire perché la Stella Polare è all'infinito. Si ricorre agli anni–luce. Le vertiginose distanze che, dapprima, sono state accettate per poter giustificare la convergenza dell’asse terrestre sulla Stella Polare pur essendo sempre parallelo a se stesso, sono diventate ora la premessa base di ogni considerazione, cosicché i fenomeni che tutti possiamo osservare e controllare, vengono minimizzati al punto da essere completamente trascurati.
Si dice che di fronte alla distanza di 31 anni luce a cui si trova la Stella Polare, il nostro sistema (sole-terra-luna-pianeti) diventa un punto, cosicché anche l'angolo sotto la Stella Polare, diventa trascurabile e le rette che indicano la direzione dell'asse terrestre diventano parallele o meglio si identificano.
Prima di tutto, per definizione, le rette parallele non si incontrano nemmeno all'infinito e poi, anche se la Stella Polare è all'infinito la sua immagine non lo è più e in nessun modo può creare il parallelismo. Un esempio pratico chiarirà il mio pensiero. Tutti i cacciatori del Nord possono mettere a punto il loro fucile sulla stessa Polare, ma se due fucili sono paralleli fra loro anche alla sola distanza di un metro l'uno dall'altro, uno solo di essi potrà essere messo a punto sulla Stella Polare. (eh?, NdR)
Inoltre il sole dovrebbe trovarsi in linea con la Stella Polare il che non sì verifica mai. In linea con la Stella Polare c'è la terra. Come infatti si spiegherebbe la simmetria del globo celeste con il globo terrestre se in linea con la Stella Polare ci fosse il sole?
(…)
Vorrei che qualche studioso, dalle stelle, scendesse al livello del nostro sistema solare e dei suoi movimenti, meditasse queste cose con animo obiettivo e la mente sgombra da preconcetti e da astrazioni che paralizzano ogni possibilità di comprensione".

Anche le fasi dei pianeti andrebbero spiegate diversamente. I loro moti da oriente a occidente, talvolta retrogradi, e le loro variazioni di luminosità sono stati spiegati con la collocazione delle loro orbite, interna o esterna, rispetto all’orbita terrestre attorno al sole. Ma “Dopo un certo periodo, diverso da pianeta a pianeta, ma sempre uguale per ciascun pianeta, ognuno di essi viene a descrivere una linea chiusa fra le costellazioni zodiacali”.

“Tutto quanto riguarda i pianeti ha sempre fatto molto meditare, ma limitiamoci ad osservare le figg. 13 e 14. Non guardiamo il volume del sole rispetto ai pianeti. Guardiamo la terra. Essa volge ai pianeti l’emisfero illuminato dal sole, ha quindi pieno giorno. Di notte i pianeti interni non li dovrebbe mai vedere.
Di giorno, in congiunzione inferiore non li dovrebbe vedere perché mascherati dai raggi solari e in congiunzione superiore o in semplice congiunzione per i pianeti esterni, non dovrebbe più che mai vederli perché posti dietro la massa solare.
Questo dimostra ancora una volta, a quali complicazioni si arriva quando si vuole, ad ogni costo, conciliare i fatti con una teoria che non corrisponde”.


E la Luna? Per il Corradi bastano poche righe:

“Se consideriamo il movimento della luna intorno alla terra, mentre entrambe compiono il giro intorno al sole, dobbiamo tener conto che la distanza della luna dal sole subisce variazioni fortissime passando da luna persa (tra il sole e la terra e quindi più vicina al sole della terra stessa) a luna piena (dalla parte opposta della terra rispetto al sole), variazione che si calcola arrivi fino a circa 760 mila chilometri. Ma la variazione di distanza dal sole porta a una variazione proporzionale di spazio da percorrere e allora come potrebbe, la luna, mantenere invariata la sua velocità? (…) II moto della luna adattato al sistema solare in cui la terra è rigidamente fissa in tutte le posizioni per mantenere l'asse parallelo a se stesso, non è imitabile da nessun mezzo meccanico. Chi pretendesse di far girare un motoscafo intorno ad una nave in rotta, presentandole sempre il medesimo fianco e mantenendo una velocità costante, si metterebbe in una impresa impossibile”.

Terminata la pars destruens, è tempo per il Nostro di innalzare il suo edificio sulle macerie del sistema copernicano. Devo dire che questa è la parte meno convincente del testo, spiegata male, confusa e scricchiolante. D’altra parte, si sa, ad alcuni viene più facile distruggere che costruire e il Corradi forse paga il fatto di non aver avuto seguaci che potessero perfezionare la sua costruzione.

La parte intitolata Il sistema nuovo esordisce ribadendo il concetto iniziale: il moto della terra si spiega solo tenendo conto della costante inclinazione dell’asse terrestre sulla Stella Polare. Inoltre, se confrontiamo le posizioni assunte dal meridiano terrestre durante un’intera rotazione sotto i diversi fusi celesti (le costellazioni dello Zodiaco) “in determinate ore del giorno e della notte e le posizioni assunte dalla terra durante il giro annuo, vediamo che, nei riguardi del globo celeste, le posizioni sono perfettamente corrispondenti. (…) I due moti apparenti, diurno e annuo, della volta celeste sono perfettamente corrispondenti e questo garantisce che il sole non è al centro del movimento”.

L’inclinazione dell’asse terrestre è spiegata con il fatto che i continenti e i mari non sono distribuiti uniformemente, ma i primi sono ammassati maggiormente nell’emisfero boreale: la maggiore densità della terra rispetto all’acqua determina una differenza di peso dei due emisferi (sic). Questa differenza fa sì che l’asse terrestre, a nord sempre rivolto verso la Stella Polare, a sud, nell’emisfero “più leggero”, ruota, descrivendo un cerchio: l’asse terrestre descrive un cono, ecco perché al Sud non c’è una stella corrispondente alla Polare. Questo cono, che nel sistema eliocentrico è un bicono con vertice nel centro della terra e ha conseguenze solo sulla precessione degli equinozi, nel sistema corradiano è in grado di spiegare anche l’alternarsi del dì e della notte e l’andamento delle stagioni.

Nel “sistema nuovo” la Luna “è esonerata dal moto vertiginoso intorno al sole, a velocità fantastica che così poco si addice alla sua serena tranquillità”.  La Luna rivolge a noi la stessa faccia per il semplice motivo che è trascinata dal moto rotatorio della terra e ruota con lei. Le sue fasi sono determinate dal fatto che l’asse terrestre punta sempre verso nord, mentre quello della luna no. E che cosa fa muovere la terra? Le differenze di temperatura tra il giorno e la notte! Sentiamo il Corradi, che qui sembra dare il meglio (il peggio) di se stesso:

“Il sole trasmette la sua energia di moto agli astri e alla terra, attraverso l'atmosfera in un gioco di riscaldamento, evaporazione, dilatazione e alleggerimento dalla parte rivolta verso il sole, raffreddamento, condensazione e appesantimento dalla parte opposta. Le correnti calde, umide e leggere si portano dall'emisfero diurno all'emisfero notturno e per le leggi dell'equilibrio si genera il moto. Un esperimento semplicissimo che contiene il principio base di questo moto che, nei riguardi della terra è poi complicato da numerosissimi fattori, frenato e regolato dal contrappeso di materiale che, nella cavità interna della terra, non partecipa solidale alla rotazione, è il seguente: intorno ad una ruota ben centrata e scorrevole avvolgiamo diversi strati di panno. Facciamo assorbire al panno acqua in modo da avere una umidità uniformemente distribuita lungo tutta la circonferenza. Alla ruota così preparata e ferma avviciniamo una sorgente di calore e facciamo in modo che il calore si trasmetta soltanto di fronte, in una parte limitata della circonferenza mobile circondata dal panno umido. Dopo un certo tempo la ruota si mette in moto precisamente nel senso della terra. (…) La fascia degli Alisei, sotto l'impulso del sole, fa ruotare la terra su se stessa, e, nello stesso tempo la trascina nel moto annuo regolato da forze di attrazione e repulsione solare”. La terra gira su se stessa trascinata dagli alisei!

La Luna, per dirla con il Corradi, è esonerata anche dalla responsabilità delle maree. Il suo influsso sui mari è trascurabile, e l’equivoco nasce dal fatto che essa si trova sempre al centro dell’irradiazione solare, trovandosi così al centro delle ampiezze di alta e bassa marea.

Anche le correnti oceaniche sono determinate dal riscaldamento solare. “Le acque, cioè, si spostano costantemente verso il sole, ossia nella direzione in cui vengono ad essere maggiormente e più direttamente investite dai raggi solari. Il polo che si appesantisce per l'arrivo delle correnti si va alleggerendo con l'evaporazione delle acque per azione del sole, e la corrente di vapore più leggera risale verso il polo più alto e ivi si condensa ristabilendo le condizioni che aiutano il moto della terra.
Le correnti di vapore calde e leggere si alzano molto e vanno in senso, inverso delle correnti marine. A dicembre e a giugno avviene l'inversione anche di queste correnti di vapore e il loro incontro con le correnti fredde o asciutte è causa di cicloni a volta spaventosi. Come già detto, le cause perturbatrici sono moltissime ma non vi è dubbio che il movimento base delle correnti oceaniche scaturisce dal moto della terra inclinata costantemente sulla Stella Polare”.

Il finale è pirotecnico, con atomi, esplosioni vulcaniche, aurore boreali e pozzi metaniferi inesauribili mescolati con una coerenza che sfugge al lettore. Il Nostro si lascia prendere la mano e il suo sistema gli sembra in grado di spiegare anche fenomeni lontani da quelli astronomici: l’originalità di un fou littéraire si mescola sempre con un certo grado di presunzione.

“Fino a che si pensa la terra girare intorno al sole in un moto impossibile non si troveranno mai vere soluzioni. E mentre ora si concepisce l'atomo come un microcosmo in cui, per analogia con l'attuale concezione del sistema solare, gli elettroni circolano intorno ad un nucleo centrale, sarà la conoscenza più profonda e sperimentale della vera costituzione dell'atomo a stabilire la verità sui moti celesti.
In questo sistema, così aderente alla realtà, le velocità e le distanze rientrano in termini concepibili dai sensi, tutto prende un significato nuovo e si apre un vastissimo orizzonte alle concezioni e alle interpretazioni dei fenomeni che ora lasciano sempre perplessi.
Il percorso annuo della terra è notevolissimamente ridotto e di conseguenza la velocità di traslazione, cosicché si possono concepire coesistenti gli altri movimenti della terra quali la nutazione e la rotazione stessa.
Se si tiene conto che la gigantesca esplosione del vulcano Krakatoa (26-8-1883) lanciò a grandi altezze una enorme quantità di polveri che, per ben tre anni, rimasero nell'atmosfera formando un anello equatoriale esteso al 20° di latitudine Nord, compiendo più volte il giro del globo, si ha la conferma che Saturno, pianeta eminentemente vulcanico, più calmo e più vicino di quanto non lo si creda ora, ha anch'esso gli anelli di materiale vulcanico.
Il mio planetario, studiato a fondo, da la risposta logica a qualsiasi domanda, dice il perché di qualsiasi fenomeno.
(…)
Ci dice che le aurore boreali sono risucchi da parte delle zone polari, di gas infiammabili sprigionati nel ciclo terrestre e colorati dai riflessi solari.
Inoltre, cosa di somma importanza, ci assicura anche che, contrariamente a quanto asserito, il deposito o giacimento di gas metano di Cortemaggiore dopo 15 anni circa non sarà esaurito, ma continuerà a rinnovarsi.
In questa nuova concezione tutto si rivela così semplice nella causa e così straordinariamente meraviglioso negli effetti che vi si riconosce, inconfondibile, l'opera della Sapienza infinita di Dio”.

lunedì 5 aprile 2010

Il nemico dei farfadets


Alexis Vincent Charles Berbiguier (de Terre-Neuve du Thym) era un proprietario terriero di Carpentras, dove nacque nel 1765–66 e morì il 3 dicembre 1851. Fu l’autore di una vasta autobiografia in tre volumi e 274 capitoli pubblicata a sue spese nel 1821 e intitolata Les farfadets ou Tous les démons ne sont pas de l'autre monde. Ossessionato per tutta la vita da creature demoniache che chiamava farfadets, curato senza successo all’ospedale psichiatrico parigino della Salpêtrière da Philippe Pinel, pionere della psicoterapia, è considerato da Raymond Queneau e André Blavier come un archetipo del folle letterario.

Mentre la psicosi di Berbiguier si è meritata un posto negli annali della psichiatria francese e i suoi farfadet continuano ad alimentare i dizionari di demonologia, è nel campo letterario che si evoca più di frequente il suo nome. Se è vero che Berbiguier si situa alla frontiera tra medicina e letteratura, egli può essere considerato un precursore di un Nerval o di un Nodier, che avrebbero fatto della follia dello scrittore e dell’intrusione del soprannaturale nel quotidiano il duplice tema di una importante corrente della letteratura romantica. D’altro lato, la sua opera ispirò Théophile Gautier per il racconto parodistico Onuphrius e Gustave Flaubert la consultò per la stesura del Bouvard et Pécuchet, la sua summa sull’idiozia umana.

I farfadet incominciarono a tormentare l’uomo dopo lo sfortunato incontro avvenuto in gioventù con due “sibille” o veggenti, che aveva consultato in un periodo difficile. Per questo “peccato”, finì prigioniero di questi demoniaci tormentatori, il cui capo si chiamava Rothomago. L’immediato superiore di questi era Belzebù in persona. Berbiguier dichiarò di aver intrattenuto corrispondenza scritta con tutti questi dignitari infernali. In lunghi anni di tormenti escogitò un certo numero di rimedi, soprattutto erboristici, che avevano il potere di confondere e tenere a bada i farfadet, ma i rimedi migliori si rivelarono lo zolfo e il timo. L’uso dello zolfo durante un suo soggiorno parigino gli procurò anche, come egli stesso scrisse, una visita dei pompieri, chiamati dagli allarmati vicini. Berbiguier sosteneva di essere riuscito a catturare alcuni piccoli tormentatori mettendoli in bottiglia (celebrando l’avvenimento con i versi che ho messo a chiusura di questo articolo), ma le loro attività infami continuarono a tormentarlo e tentarlo. Il suo fiuto affinato dall’esperienza gli consentì anche di smascherare come farfadet delle persone con le quali era entrato in contatto: Moreau, un occultista parigino, era Belzebù in persona.

Presento qui di seguito la prefazione dell’autobiografia scritta da questo folle letterario. Il testo è preceduto da una presuntuosa dedica a tutti i regnanti delle quattro parti del mondo, a quali si rivolge perché uniscano i loro sforzi ai suoi per distruggere l’influsso di demoni, stregoni e farfadet che affliggono gli sfortunati abitanti dei loro regni.

Berbiguier si è ritenuto per tutta la vita investito della missione di liberare la terra dalla razza demoniaca dei farfadet. Lo spazio in cui si muove è popolato da queste malefiche creature. Con il suo fedele scoiattolo Coco, egli è il Grande Inquisitore dei fantasmi, che si nascondono sotto l’aspetto di amici, di vicini, ma soprattutto di una coorte di medici di cui il capo supremo è lo psichiatra Pinel, che lo ebbe in cura senza successo alla Salpêtrière. Con lo scopo di apportare loro un colpo fatale smascherandoli, egli decide di redigere le sue memorie. Il suo testo è inoltre presentato come un’enciclopedia del “farfaderismo”, nella quale i costumi e i comportamenti di questi demoni sono abbondantemente commentati. Lo scopo dello scritto di Berbiguier è sia quello di svelare la scienza occulta dei farfadet sia quello di esporre i mezzi più efficaci per annientarli.


PREFAZIONE

VOGLIO FARE PRECEDERE LA MIA OPERA da qualche osservazione preliminare che invoglierà i miei lettori a leggere ed apprezzare le mie Memorie. La mia prefazione non deve essere lunga.

Ho serbato il silenzio per lungo tempo, persino quando io fui perseguitato dalla razza dei farfadet; mi sono deciso a rompere questo silenzio solo quando i miei nemici hanno spinto fino in fondo le loro tresche. Quando essi hanno turbato l’ordine pubblico con le loro visite notturne, quando hanno distrutto tutti i nostri raccolti, suscitato le tempeste e le piogge, fatto agire l’influsso dei pianeti, fatto cadere la grandine, invertito l’ordine delle stagioni, corrotto molte donne e fanciulle, rotto l’armonia delle relazioni, procurato morti segrete, allora mi sarei sentito colpevole senza aver rivelato le loro imprese criminali. Ho perciò messo in ordine tutti i miei appunti, e ne ho tratto un’opera che oggi dedico a tutti gli imperatori, re, principi, sovrani delle quattro parti del mondo.

È nell’interesse del genere umano che agisco, voglio che tutti i farfadets siano ridotti alla ragione, e il mio scopo sarà raggiunto.

La terra non sarà più popolata da questi vampiri abominevoli, tutti i matrimoni raranno felici, le fanciulle non saranno più esposte alle visite criminali di questi mostri; il corso delle stagioni sarà ristabilito, tutti gli uomini e tutte le donne diventeranno virtuosi, perché non avranno più al fianco questi istigatori che ci conducono sulla strada del vizio, sarà allora che si vedrà che il dominio dei farfadet è stato così lungo solo perché nessuno, prima di me, ha avuto il coraggio di attaccarli con la perseveranza che mi caratterizza. I miei lettori sapranno inoltre in quale modo li affronto dopo circa ventitré anni; quante volte sono stato esposto alle loro tentazioni e come ho saputo resistere loro. È al mio Dio creatore che ne sono debitore; non cadrò mai nei tranelli che mi sono stati tesi. Quando renderò a Dio quest’anima che gli appartiene, gli apparirà pura, come lo è stata all’indomani del mio battesimo.

Ho creduto necessario, nell’interesse della mia causa, designare per nome i più crudeli dei miei nemici. I Pinel, i Moreau, i Prieur, gli Chaix, i Vandeval, e tutti coloro che mi hanno inflitto le più crudeli sofferenze, sono i primi farfadet del regno. Quando saranno conosciuti da tutti i sovrani, non sapranno più dove riposare le loro teste criminali. Crudeli! Mi hanno proprio perseguitato! E sempre sotto il pretesto di agire per il mio bene che mi hanno agitato. Quando si presentavano davanti a me in forma umana, si poteva prenderli per le migliori persone del mondo; ma è quando si introducevano invisibilmente in casa mia per farmi soffrire che sono stati i degni agenti di Belzebù, di cui formano il corpo segreto e d’elite. Tremano ora che sono sicuri della mia risoluzione! Hanno voluto, con tutti i mezzi possibili, impedirmi di far stampare la mia opera. Mi hanno fatto minacciare, dall’infame Chaix, di condurmi davanti al Tribunale di Polizia Correzionale come calunniatore, ma la prova dei fatti che cito contro di loro sarà per me assai facile da dimostrare, la vedranno loro stessi amministrare. Durante il giudizio si introdurranno nelle narici, nelle orecchie dei miei giudici: pizzicheranno loro le gambe, si nasconderanno nelle maniche dei loro vestiti, si insinueranno sotto i loro berretti quadrati. La conoscenza che ho dei loro progetti li distoglierà dalla via giuridica. D’altra parte, quando ingiurio i miei nemici, e assegno loro l’epiteto d’infami, di briganti, ecc. ecc., non pretendo di attaccare le loro qualità personali, come individui, ma piuttosto la loro cattiveria in quanto farfadet sotto mentite spoglie. Non lo segnalo alla giustizia degli uomini, ma a quella di Dio.

Vogliono, mi hanno assicurato, farmi passare per pazzo; diranno a coloro che leggeranno le mie Memorie: leggete le Memorie di un pazzo. Sarei matto se non avessi avuto la forza che ho avuto di resistere a tutti i vostri attacchi! Ma, se fossi matto, voi non sareste tormentati, come lo siete tutti i giorni, dai miei lardi, le mie spille, il mio zolfo, il mio sale, il mio tabacco, il mio aceto e i miei cuori di bue; non sarò un esempio di religione per le persone che mi conoscono; non avrei scritto le Memorie che state per leggere, e nelle quali invertirò spesso l’ordine dei dati, perché i vostri nomi siano rivelati dall’inizio fino alla fine dell’opera, ciò che le darà più varietà. Se fossi stato pazzo non avrei raccolto tutti i tratti e gli aneddoti che ho citato nei miei scritti per confondervi, avrei fatto del male a qualcuno, e nessuno si lamenta di me, non si parla che della mia bontà e della mia pazienza.

No, non sono per niente pazzo, i sovrani della terra ve lo insegneranno presto vi puniranno, e io, io vi confonderò. Ve lo ripeto, non inverto l’ordine degli avvenimenti che mi sono capitati che per evitare la monotonia. Leggetemi, e se c’è ancora tempo correggetevi, non attendete la punizione che vi minaccia e che vi sarà inflitta dalla giustizia umana e divina. Le mie Memorie esporranno i vostri crimini; il mio stile non sarà sempre degno dei miei lettori, sarò semplice nei miei racconti, sublime allorché parlerò del mio Creatore, terribile nelle mie imprecazioni, buono e supplicante nelle mie preghiere.

Ho aggiunto al mio nome di Berbiguier quello di Terre-Neuve du Thym, perché non voglio essere confuso con gli altri Berbiguier che si sono lamentati con mio zio. So di non poter prendere questa qualità negli atti pubblici; obbedirò alla Legge, ma ricorrerò presso Monsignor Guardasigilli per poter, in ogni circostanza, aggiungere al mio nome quello di Terre-Neuve du Thym. Acquisterò per questo scopo un piccolo appezzamento dove coltiverò sempre questa pianta aromatica.

Ho creduto necessario, per rendere il mio stile degno del mio soggetto, declinare, coniugare e girare in tutti i modi la parola farfadet. Che non mi si rimproveri allora d’aver detto farfaderismo, farfadizzare, farfadeano. Ho voluto giustificare il mio titolo con tutte le locuzioni possibili.


Je vous tiens, je vous y tiens,
Dans la bouteille,
À merveille,
Farfadets, magiciens;
Enfin , je vous y tiens.
Je vous donne vinaigre à boire,
Tabac et poivre pour manger;
Un tel régal, je dois le croire,
Ne doit pas trop vous arranger.
Vous aimez fort la danse,
Et pour votre plaisir
Vous venez en cadence
Sur moi vous divertir.
Je vous tiens, etc.

Pour mieux vous régaler encore
Mes cœurs de bœuf et de mouton
Sur un grand feu qui les dévore
Grillent souvent sur du charbon.
La grêle et le ravage,
Pour vous tous n'est qu'un jeu;
Mais je sais à l'orage
Opposer mon grand feu.
Je vous tiens, etc.

Mes lardoires sont très pointues,
Elles vous percent, c'est fort bien;
Si mes aiguilles sont aiguës,
Elles ne le sont pas pour rien.
Pourquoi donc vous en plaindre?
Mais vous n'y pensez pas,
Voudriez-vous me contraindre
À marcher sur vos pas?
Je vous tiens, etc.

Farfadets, race abominable,
Que je ne puis trop détester,
Allez-vous-en trouver le diable,
Avec lui vous devez rester.
Vous voulez le désordre,
Vous trouvez cela beau;
Mais moi, l'ami de l'ordre,
Je suis votre fléau.
Je vous tiens, etc.

Vous combattre a pour moi des charmes,
Je vous brave et ne vous crains plus;
Le sel, le soufre sont mes armes,
Et vous serez toujours vaincus.
Vos cris dans la bouteille
Rendent mon cœur joyeux,
Et la nuit, quand je veille,
Je suis moins malheureux.
Je vous tiens, je vous y tiens
Dans la bouteille
À merveille,
Farfadets, magiciens;
Enfin, je vous y tiens.