sabato 31 dicembre 2011

Filastrocca di Capodanno


Filastrocca di capodanno:
fammi gli auguri per tutto l'anno:
voglio un gennaio col sole d'aprile,
un luglio fresco, un marzo gentile;
voglio un giorno senza sera,
voglio un mare senza bufera;
voglio un pane sempre fresco,
sul cipresso il fiore del pesco;
che siano amici il gatto e il cane,
che diano latte le fontane.
Se voglio troppo, non darmi niente,
dammi una faccia allegra solamente.

Con le parole del maestro Gianni Rodari faccio un grande augurio per l'anno nuovo a tutti i miei lettori, fedeli e occasionali.

giovedì 29 dicembre 2011

Corpo di una moviola! Cattiva fisica al cinema



Questa volta mi metto nei panni di Burberoni, il regista perfezionista della Settimana Enigmistica, ed esclamo anch’io “Corpo di una moviola!”, perché, se il simpatico personaggio è perseguitato da collaboratori pasticcioni che riempiono di errori le sceneggiature delle riduzioni televisive di opere letterarie, noi tutti siamo vittime degli effetti speciali di gran parte dei film d’azione, infarciti di errori di fisica dal primo all’ultimo minuto, ma talmente pervasivi da farci ritenere davvero possibili certe sciocchezze, diventate dei cliché visuali.

Ho deciso di trattare alcuni degli orrori e degli errori più comuni, tralasciando per ovvi motivi il genere comico e quello fantascientifico, che per loro natura sono dichiaratamente anche fanta-fisici (anche se alcuni film di fantascienza, come 2001 - Odissea nello spazio, sono dei bellissimi esempi di ineccepibile rispetto delle acquisizioni più avanzate della materia). Ho anche ignorato i film che contengono combattimenti con arti marziali orientali, alcuni anche di grandi registi, perché la costante sfida alla legge di gravità degli eroi che saltano dalla strada al secondo piano o che incrociano le spade restando sospesi per aria resta per me un mistero pata-fisico non rivelato, per cui rimango in attesa di illuminazione da parte di Chuck Norris o dello spirito di Bruce Lee.

Proiettili che scintillano - Rimanendo in tema di illuminazione, il primo errore da segnalare sono le scintille che si producono dall’impatto di un proiettile su una superficie rigida. L’effetto è molto spettacolare, ma è quasi impossibile. Generalmente i proiettili delle pistole sono fatti di leghe di piombo o da piombo rivestito di rame, che non producono scintille quando colpiscono un’oggetto. Il fatto è ben risaputo dai lavoratori della manutenzione nelle industrie chimiche, che, quando devono intervenire in aree dove sono presenti vapori infiammabili, usano martelli fatti con leghe di rame o di piombo proprio perché non producono scintille, al contrario dei martelli d’acciaio. Le scintille prodotti da questi ultimi, tuttavia, sono scarsamente visibili, anche in ambienti con scarsa illuminazione.

I proiettili si riscaldano quando colpiscono un oggetto. Il caso peggiore si avrebbe se tutta la loro energia cinetica si convertisse istantaneamente in energia termica quando colpiscono il bersaglio, e che questa restasse tutta al loro interno. Ciò è assai improbabile, ma facile da calcolare. Un proiettile di pistola calibro .45, per esempio, ha una massa m di 0,015 kg e una velocità iniziale v di circa 288 m/s (la massima velocità per le munizioni che si trovano in commercio). La sua energia cinetica Ec risulta:



Se tutta questa energia cinetica fosse convertita in energia termica, l’innalzamento di temperatura ΔT può essere calcolato dalla formula:


Dove Q è il calore trasferito all’oggetto (uguale all’energia cinetica), m è la massa e cp è il calore specifico, che per il piombo vale 130 J/Kg•°K.

Si hanno perciò 319° C, che vanno aggiunti alla temperatura ambiente, che poniamo sia di 20°C, ottenendo un valore di 339°C. Il punto di fusione del piombo è di circa 327°C. Per il momento non chiediamoci se il proiettile fonde davvero oppure no, ma a che cosa assomiglierebbe se lo facesse. Il piombo fuso assomiglia all’argento appena lucidato (come quello dei proiettili “utilizzati” nei film per uccidere i lupi mannari), che raggiunge il calor rosso e fonde a 962°C. Il piombo invece non è incandescente quando fonde.

L’analisi sarebbe la stessa per la maggior parte dei proiettili di pistola o di arma automatica. Al contrario, i proiettili di fucile contengono molta più energia cinetica e possono diventare molto più caldi. Se si fanno calcoli simili per i proiettili di fucili potenti, come quelli degli M-16 della NATO, si scopre che nel raggio di tiro c’è abbastanza energia nel proiettile da fondere non solo il suo nucleo di piombo, ma anche il suo rivestimento di rame. La temperatura dei due metalli supererebbe i 1000°C e il proiettile emetterebbe luce di color arancione brillante.

In realtà i proiettili non si comportano come suggerito dai calcoli. La maggior parte dell’energia cinetica lascia il proiettile durante il tragitto. Una parte viene assorbita dall’oggetto colpito, sia come energia d’impatto, sia come deformazione e/o rottura sia del proiettile sia del bersaglio. Inoltre una parte dell’energia viene assorbita da quest’ultimo sotto forma di calore.

I proiettili di uso comune possono produrre scintille solo in casi molto particolari, quando ad esempio colpiscono rocce assai dure i cui frammenti collidendo tra loro generano scintille, oppure se viene colpita una barriera d’acciaio rigido. Si tratta comunque di fenomeni assai poco luminosi, scarsamente visibili con la luce del giorno. I proiettili delle più comuni pistole o dei fucili non sono in grado di generare all’impatto energia statica che provoca scintille.

Diverso è il discorso per i proiettili di uso militare con rivestimento o con nucleo d’acciaio, che possono provocare l’emissione di scintille, ma non si tratta mai degli spettacoli pirotecnici ai quali ci hanno abituato i film. Non c’è alcun motivo per aumentare in modo così poco veritiero la tensione di un conflitto a fuoco, perché basta, ad esempio, riprodurre in modo fedele il rumore dell’impatto delle pallottole contro gli elmetti d’acciaio, come avviene nella scena dello sbarco in Salvate il soldato Ryan per creare un effetto agghiacciante.

Automobili che esplodono - Un altro mistero da chiarire è come mai le automobili, soprattutto nei film americani o nelle mediocri imitazioni europee (sto pensando alla serie tedesca Squadra Speciale Cobra 11), esplodono dopo un incidente o una caduta da una certa altezza, come se il serbatoio non aspettasse altro che un impatto per detonare fragorosamente. Per nostra fortuna non è così, e le automobili sono progettate in modo che ciò non avvenga, persino in America (Marchionne ne prenda nota).

Perché un serbatoio esploda si deve infatti verificare tutta una serie di circostanze che è difficile che possano verificarsi assieme. Persino quando una vettura prende fuoco in un incidente, o viene incendiata di proposito, raramente esplode. Un serbatoio può esplodere se contiene una miscela aria-benzina esplosiva e c’è un’apertura che consente alle fiamme di entrare. Ciò può avvenire se il fuoco agisce sull’esterno del serbatoio, vaporizzando la miscela contenuta, portando a un eccesso di pressione e alla fine alla rottura del serbatoio con conseguente contatto con le fiamme e all’esplosione. Se tuttavia i vapori di benzina escono abbastanza in fretta, il serbatoio non dovrebbe rompersi. La maggior parte degli incendi si origina nel vano motore e non si estende verso la parte posteriore prima che nel frattempo il serbatoio abbia perso benzina verso l’esterno. Perché si verifichi l’esplosione c’è proprio bisogno di fiamme velocissime e di serbatoi che si saturano di vapori invece di perdere benzina verso l’esterno.

La miscela nel serbatoio è di solito troppo ricca per esplodere e ciò esclude la veridicità delle scene troppo ripetute di automobili che esplodono perché il serbatoio viene colpito da un proiettile. Come si è visto, i proiettili in commercio non provocano scintille. Quelli militari con camicia d’acciaio lo fanno, ma è davvero improbabile che vadano a colpire quell’unico serbatoio quasi vuoto su un milione dove è possibile che si formi una miscela aria-benzina potenzialmente esplosiva. E non è detto che le scintille riescano a penetrare nel serbatoio dal foro nella carrozzeria.

Vetri che non feriscono - Sembra che nessuno sceneggiatore si sia mai ferito con un vetro rotto, eppure i frammenti di vetro tagliano come rasoi. Il vetro rotto di una finestra può provocare ferite profonde e copiose emorragie, può anche amputare dita e arti, ma non a Hollywood. Nei film la gente salta attraverso le lastre di vetro come niente, con l’unico inconveniente di doversi spazzolare a mani nude le schegge rimaste sui vestiti.

Il vetro rotto possiede almeno due meccanismi per ferire una persona che si tuffa attraverso una finestra: il suo peso e la sua inerzia. Nel primo caso, le grandi lastre di vetro possono cadere come ghigliottine, amputando parti del corpo. Nel secondo, quando una persona salta o, ancor peggio, guida una moto attraverso una finestra o una vetrina, i frammenti di vetro tendono a rimanere sul posto per inerzia. L’unico modo per spostarli è applicare una forza. Se il corpo della persona fornisce questa forza premendo sulla superficie del vetro, esso può tagliare vestiti, pelle e carne. Nel mondo reale, saltare o guidare attraverso una finestra di vetro può essere un suicidio.

Ci sono persone che sono cadute accidentalmente attraverso delle finestre senza subire serie ferite, d’accordo, così come ci sono persone che sono caduti indenni dal quarto piano, ma si tratta di percentuali irrisorie, mentre nei film d’azione succede quasi sempre così.

Il vetro di sicurezza può essere d’aiuto, perché è progettato per rompersi in frammenti piccolissimi, quindi con basso peso e bassa inerzia, con bordi arrotondati, al contrario di quelli acuminati del vetro normale. Il vetro laminato aggiunge un sottile foglio di plastica tra due di vetro. Ciò serve per mantenere uniti i pezzi di vetro rotto, impedendo che diventino proiettili. I vetri delle automobili sono fatti di uno di questi due tipi. Ciò nonostante, il vetro di sicurezza non è una superficie cedevole: quando in un incidente si batte la testa contro il parabrezza, è facile procurarsi contusioni o rotture di denti e/o ossa del cranio. Gettarsi attraverso un vetro di sicurezza provoca senz’altro meno tagli che farlo attraverso un vetro normale, ma non per questo è operazione priva di inconvenienti, a causa delle ferite da impatto.

I salti attraverso le finestre senza conseguenze appartengono alla peggior categoria di invenzioni dei film d’azione.

Colpi d’armi da fuoco che fanno volare - Un personaggio di un film viene colpito da un proiettile di pistola o di fucile: invece di accasciarsi subito al suolo, viene spinto all’indietro e vola per un paio di metri prima di cadere a terra. Quante volte abbiamo visto questa scena? E quante volte l’abbiamo giustificata pensando alla forza d’impatto del proiettile sparato a grande velocità? Più sopra abbiamo visto qual è l’ordine di grandezza dell’energia cinetica posseduta da un proiettile in arrivo. Siamo ancora sicuri che questa energia sia in grado di spostare in modo così drammatico un corpo di 70-80 Kg?



Raggi laser visibili - Lasciamo stare le spade laser di Guerre Stellari, che in fondo appartengono a una fiaba ben confezionata, ambientata in un mondo fanta-scientifico. Pensiamo invece ai fasci di luce laser che creano un bizzarro intreccio a protezione di un oggetto prezioso, che costringono il protagonista a prodursi in audaci contorsioni per giungere alla meta (chissà perché, poi, hanno tali disposizioni, dato che una rete a maglie regolari sufficientemente ravvicinate impedirebbe ogni tentativo di penetrazione). Oppure pensiamo ai mirini laser dei fucili delle forze di sicurezza di tanti altri film. Il fatto è che il fascio di luce laser non si dovrebbe vedere in un ambiente normale: quello che si vede è solo il puntino colorato alla fine del suo percorso. Ma che ne sarebbe dello spettacolo?

Il raggio laser di bassa energia, come sanno tutti coloro che usano quei piccoli aggeggi attaccati ai portachiavi (compresi due miei allievi di prima che ho fatto sospendere perché li puntavano sugli occhi dei compagni), non è visibile a meno che incontri del fumo, della nebbia o della polvere sottile in un ambiente scarsamente illuminato. Le piccole particelle di queste “nuvole” agiscono come tante superfici riflettenti, che disperdono parte del fascio in tutte le direzioni, compresa quella degli occhi dell’osservatore, con lo stesso meccanismo che produce gli aloni intorno al sole o alla luna. In realtà ciò che si vede sono le particelle colpite dal fascio laser, non il fascio stesso. Il fatto di vederlo indica che sta perdendo energia.

Con una lunghezza d’onda (e alta energia) appropriata, i raggi laser possono rendere incandescente l’aria sul loro cammino. Se un fotone di questi fasci di luce colpisce un elettrone degli atomi che compongono le molecole dei gas dell’aria, esso può salire a un più alto livello energetico. Alla fine l’elettrone torna al livello di partenza, emettendo un fotone. La luce emessa non fa parte però del fascio di luce laser, perché non ha la stessa direzione, ma ha lo stesso colore, cioè la stessa lunghezza d’onda, del raggio che l’ha provocata. In ogni caso, è difficile da vedere in un ambiente illuminato, a meno che il laser non possieda una grande energia, come i laser utilizzati (nella semioscurità) negli spettacoli di molti gruppi musicali.

E i sistemi di sicurezza? Niente di strano: non utilizzano quasi mai luci laser, ma sistemi che impiegano i molto più pratici e meno costosi Led a luce infrarossa.


Quali conclusioni trarre da questi esempi di cattiva fisica nei film? Se ne possono trarre tante, che possono interessare la divulgazione, la didattica, la natura stessa del prodotto cinematografico. Personalmente ritengo che una buona sceneggiatura, una buona regia e attori all’altezza del compito loro assegnato possono rendere assolutamente degno e spettacolare anche un film d’azione, senza dover ricorrere a tali diseducativi artifici.

domenica 25 dicembre 2011

Problemi autodefiniti


L’auto-ricorsione è una ricorsione in cui un oggetto è definito da se stesso. Ad esempio è famosa la facezia che domanda qual è il volume di una pizza di spessore a e di raggio z. Applicando la formula per il volume del cilindro si ottiene :


Una frase auto-ricorsiva attribuita a Jonathan vos Post e citata da Douglas Hofstadter (in Metamagical Themas: Questing of Mind and Pattern. BasicBooks, New York, 1985) suona come “This sentence contains ten words, eighteen syllables, and sixty-four letters”. E, effettivamente, la frase contiene dieci parole, trenta sillabe e sessantaquattro lettere.

La rivista Math Horizons della Mathematical Association of America (Volume 13, aprile 2006) forniva alcuni problemi autodefiniti emersi dalla gara, proposta nel numero del settembre precedente, che chiedeva di porre un problema in modo tale che l’enunciato contenesse la risposta: “to pose a problem in such a way that they contained their own answers”. Questi enunciati possono considerati forme di autoricorsione, forme evolute e formalizzate delle domande che si facevano da bambini, del tipo “Quanti furono i sette re di Roma?” oppure “Di che colore era il cavallo bianco di Giulio Cesare?”.

Purtroppo per il lettore italiano, si tratta di giochi verbali con la lingua inglese che sono in gran parte intraducibili. Per esempio (in grassetto corsivo la risposta):

• Nel 1978, Raymond Smullyan scrisse un libro sui rompicapi logici il cui titolo era Qual è il titolo di questo libro? - Roger Nelsen, Lewis & Clark College, Oregon

• I am the square root of ‒1. Who am i? [I = i, che è la radice di ‒1] - Head-Royce, School Math Club in Oakland, California

• What would the value of 190 in hexadecimal be? [(190)10=(BE)16] - idem

• How many consonants are in "one"? How many in "two"? And how many in "three"? [one ha una consonante, two ne ha due e three ne ha tre]. - Rheta Rubenstein, University of Michigan-Dearborn

• Twenty-nine is a prime example of what kind of number? [prime significa “ottimo”, ma indica anche i numeri primi]. - eadem

• What do you do to the length of an edge of a cube to find its volume? [bisogna elevare al cubo (to cube) il lato]. - eadem

L’enunciato risultato vincente è stato però un problema di fisica elementare:

• Al tempo t = 0, l’acqua incomincia a riempire un serbatoio (tank) vuoto, in modo tale che il volume dell’acqua varia alla velocità V’(t) = sec2t. Determinare la quantità d’acqua nel serbatoio al tempo t = k, dove 0 < k < π/2. [La risposta è evidentemente tank] - Raymond N. Greenwell, Hofstra University, New York. 

 Tra le risposte pervenute, una ha lasciato un segno indelebile, al punto di meritare una pagina di Wikipedia e una di Mathworld. Fu inviata dall’informatico canadese Jeff Tupper dell’Università di Toronto e da allora prende il nome di formula autoreferenziale di Tupper. Ecco l’enunciato: 

Descrivere l’insieme di punti nel piano xy che soddisfa la seguente disequazione: 


in cui x è compreso tra 0 e 107 e y è compreso tra k e k+17, dove k è il seguente numero intero di 544 cifre:

485845063618971342358209596249420204458140058798324454948309308506193470470880992845064476986552436484999724702491511911041160573917740785691975432657185544205721044573588368182982375413963433822519945219165128434833290513119319995350241375876523926487461339490687013056229581321948111368533953556529085002387509285689269455597428154638651073004910672305893358605254409666435126534936364395712556569593681518334857605266940161251266951421550539554519153785457525756590740540157929001765967965480064427829131488548259914721248506352686630476300 (*)

Nell’aritmetica modulare e nei linguaggi di programmazione il simbolo è la funzione parte intera, mentre mod (a, n) è l’operazione di calcolo del resto della divisione euclidea a/n.

Se si rappresenta sul piano la funzione così descritta, si ottiene curioso grafico autoreferenziale di 1696 × 272 pixel:


La formula di Tupper in realtà non avrebbe potuto partecipare alla gara di Math Horizons, perché non era stata concepita appositamente. Essa era già comparsa nel 2001 nell’articolo dello stesso autore Reliable Two-Dimensional Graphing Methods for Mathematical Formulae with Two Free Variables, nel quale Tupper aveva esposto una serie di nuovi algoritmi per rappresentare graficamente equazioni e disequazioni implicite bidimensionali con il suo programma GrafEq. La formula autoreferenziale di Tupper era stata presentata nel testo come esempio delle possibilità di un particolare algoritmo, del quale venivano forniti altri esempi applicativi. Essa è oggi utilizzata in diversi corsi di matematica e di informatica come esercizio per realizzare grafici di formule.

Si parva licet, anch’io voglio cimentarmi con i problemi autodefiniti, proponendone due e invitando i lettori a fare altrettanto nei commenti (non vale copiare dai siti americani):

• Secondo voi, qual è stato il miglior piazzamento del grande ciclista Raymond Poulidor al Tour de France?

• Quanti spettatori assistettero al primo spettacolo dell’avo romano dell’attore Gioele Dix?

(*) Mathworld e quel mattacchione di Stan Wagon, alpinista e docente di Matematica e Informatica al Macalester College, St. Paul, Minnesota, che firmò con Tupper l’invio della formula al contest di Math Horizons, danno in realtà un altro numero, di 541 cifre.

960939379918958884971672962127852754715004339660129306651505519271702802395266424689642842174350718121267153782770623355993237280874144307891325963941337723487857735749823926629715517173716995165232890538221612403238855866184013235585136048828693337902491454229288667081096184496091705183454067827731551705405381627380967602565625016981482083418783163849115590225610003652351370343874461848378737238198224849863465033159410054974700593138339226497249461751545728366702369745461014655997933798537483143786841806593422227898388722980000748404719.

Buone feste.

mercoledì 21 dicembre 2011

Cose strane dal mondo


Nella stanza segreta scoperta nella casa dello scrittore normanno Didier Levesque, morto martedì scorso, ogni mercoledì il tempo scorre a ritroso.

Nel 1926 a Canton si perse un tram con tutti i passeggeri.

La nipote di un presidente arabo faceva la prostituta nei pressi di Milano.

Una soluzione dell'equazione di terzo grado di pagina 218 nel testo di algebra del Funès è un numero con un periodo di 18.656 cifre.

Nell’autunno del 1945 nel porto di Napoli scomparve dalla sera alla mattina una nave da guerra americana.

Nell'edizione dei "Viaggi di Gulliver" pubblicata a Edimburgo nel 1972, a circa metà del testo c'è una pagina bianca. Chi vi si imbatte alle 3 del pomeriggio di sabato muore.

Il cognome russo Smerdjakov non deriva da “merda”.

Alla fine dell'Ottocento un orso dello zoo di Berlino leggeva e commentava i necrologi in yiddish.

Un programma di lettura vocale dell'australiana Ayers Inc. legge l'inglese con l'accento di Parma.

Prima di varare provvedimenti che andavano a colpire i poveri, un ministro di un Re Borbone di Napoli dichiarò di ispirarsi a criteri di equità.

Il regista americano Elvis Gutierres ha realizzato un film sulla propria vita che dura 46 anni.

Nel 260 avanti Cristo, prima di perdere la battaglia di Varanasi, il re Arjuna III del Pradesh sognò un nano pelato che prometteva miracoli.

Da una sfera gelatinosa pescata nel 1950 nel lago Titicaca uscì un cane che morse il pescatore.

In francese la parola minette indica l’organo sessuale femminile e, per estensione, una deputata regionale.

In una cantina di Buenos Aires l’illuminazione è fornita da una misteriosa sfera brillante sospesa per aria.

martedì 20 dicembre 2011

Fritz Haber, il maledetto


ResearchBlogging.orgLa galleria dei ritratti fotografici degli scienziati della Bassa Slesia che hanno vinto il premio Nobel, nel salone Śląski, proprio di fronte all’edificio principale dell’Università di Breslavia (oggi Wroclaw), è piuttosto eterodossa per gli standard consueti. Due degli scienziati ritratti guardano infatti il pubblico a testa in giù. Il primo è Philipp Lenard, lo scopritore dei raggi catodici, che i lettori di questo blog hanno già conosciuto come fiero oppositore di Einstein nel 1920, in seguito diventato il vate ispiratore della “fisica ariana” durante tutto il periodo del nazionalsocialismo. Il secondo è Fritz Haber, che inventò un metodo per sintetizzare l’ammoniaca e più tardi fu il paladino dell’uso dei gas tossici sui campi di battaglia della prima guerra mondiale.

Tra gli scienziati della galleria degli slesiani poche figure sono così controverse, complicate, tragiche come quella di Haber (1868–1934). Il chimico era stato insignito del Premio Nobel del 1918 per aver sviluppato prima della guerra un metodo per sintetizzare direttamente l’ammoniaca dai suoi elementi costituenti, l’idrogeno e l’azoto, ad alta pressione e temperatura.

Pochi anni dopo la sua scoperta, Fritz Haber mise il suo istituto a disposizione del governo tedesco e convinse lo Stato Maggiore a sperimentare e poi utilizzare l’uso di gas tossici mortali sui campi di battaglia della Grande Guerra. La nostra giusta indignazione non deve tuttavia ostacolare uno studio più approfondito e obiettivo del personaggio. E’ ciò che hanno fatto la giornalista Magda Dunikowska e Ludwik Turko, dell’Istituto di Fisica Teorica dell’Università di Wroclaw, nell’articolo Fritz Haber, the damned scientist, nel quale si osserva che la figura dello scienziato, diventato una leggenda nera, va studiata sia in ragione del suo indiscusso talento scientifico, sia perché la sua biografia è uno specchio nel quale si riflettono tutte le contraddizioni della sua epoca, nella quale gli scienziati cominciarono ad assumere quell’importante ruolo politico che hanno oggi.


Fritz Haber era nato a Breslavia (allora Breslau) da una famiglia di ebrei galiziani. Il padre era un imprenditore chimico, in una città che era un microcosmo in fermento: alla fine dell’Ottocento era un miscuglio di etnie, culture e religioni, sviluppatosi tra i poli di un’elegante cultura urbana e della fede nel potere della scienza. Il legame stretto e inedito tra i laboratori universitari di chimica, l’ufficio brevetti e l’immediata applicazione industriale delle scoperte appena realizzate favoriva lo sviluppo economico. In quel vivace ambiente scientifico non sfuggì, ad esempio, che la sintesi dell’ammoniaca consentiva la produzione di massa dei fertilizzanti ma anche quella degli esplosivi.

Fra il 1886 e il 1891, Haber studiò all'Università di Heidelberg con Robert Bunsen; in seguito si trasferì all'Università di Berlino nel gruppo di August W. Hoffmann e infine con Karl Liebermann. Haber era un convinto nazionalista, in un tempo in cui il nazionalismo era una virtù e un’attitudine degna di lode. Il mondo in cui era cresciuto ed educato considerava propri valori fondanti la disciplina, il patriottismo e il rispetto per l’esercito, instillati fin dalla più tenera età. Il sistema scolastico tedesco era di ottimo livello e il grande ruolo attribuito alla scienza poteva far sperare a studiosi e scienziati di giungere ai vertici della gerarchia sociale. In quel clima Haber, che si sentiva un vero tedesco, aveva deciso all’età di 24 anni di farsi battezzare in una chiesa luterana, rinnegando le sue ascendenze e, dicono i maligni, per facilitare la sua carriera scientifica, in una società che continuava a considerare gli ebrei con sospetto e un corpo estraneo alla nazione.

Alla fine del XIX secolo, lo sviluppo industriale in Europa aveva raggiunto livelli mai conseguiti e insperati solo cinquant’anni prima, e la ricerca di nuovi mercati aveva acuito le storiche rivalità tra i grandi stati europei. Assieme agli interessi sempre più contrastanti e alle ambizioni territoriali delle grandi potenze, il patriottismo era degenerato in un ostinato nazionalismo: all’amore per la patria si affiancava l’odio per lo straniero, in ogni settore della vita sociale, con una crescente minaccia di guerra. Il relativamente giovane Kaiserreich, l’Impero Tedesco che pochi decenni prima aveva riunificato la Germania per la prima volta dopo la Guerra dei Trent’Anni, premeva vigorosamente per guadagnare importanza nello spazio una volta diviso tra le tradizionali potenze coloniali europee, la Francia e l’Inghilterra.

Allo sviluppo economico si accompagnò lo sviluppo demografico e l’aumento dell’aspettativa di vita, che, come aveva già previsto Malthus all’inizio del secolo, aumentava il numero di bocche da sfamare e poneva il serio problema di nutrire tutta la popolazione. Al contrario dell’industria, l’agricoltura aveva fatto pochi progressi e la produzione di cibo, dipendente dai capricci del tempo e da terre coltivate in modo intensivo e impoverite da secoli di sfruttamento, incominciava a non riuscire a soddisfare la domanda crescente. Le importazioni di cereali dall’America e dalla Russia coprivano solo una piccola percentuale del bisogno e comportavano costi crescenti, particolarmente per un paese, come la Germania, che non aveva un impero coloniale. Non c’era alternativa all’autosufficienza, ma i fertilizzanti tradizionali, assicurati dai depositi cileni di nitrati e dalle riserve di guano sudamericano erano pressoché esauriti. L’unica soluzione era sviluppare nuovi metodi per produrre i fertilizzanti fissando l’azoto atmosferico. Diversi tentativi di fissare l’azoto atmosferico erano stati intrapresi in diverse parti del mondo, tutti più o meno falliti oppure troppo dispendiosi.

Nella corsa per la ricerca di nuovi fertilizzanti, l’industria chimica tedesca partiva da una posizione di vantaggio, acquisita sin dai tempi di Kekulé, che si manifestava nel gran numero di brevetti, come ad esempio quello per la produzione dell’alizarina sintetica, ad opera di Liebermann, utilizzata come colorante rosso nell’industria tessile, che in quindici anni aveva portato sul lastrico i coltivatori della Francia meridionale di Rubia Tinctorum dalle cui radici si estraeva quella naturale.

La carriera di Fritz Haber come scienziato, che iniziò con lo sviluppo di un metodo industriale per la sintesi dell’ammoniaca, fu possibile proprio a causa dello sviluppo delle istituzioni dello stato tedesco. Nel 1905 egli pubblicò Thermodynamik technischer Gasreaktionen (La termodinamica delle reazioni dei gas tecnici), opera più interessata all’applicazione industriale della chimica che ai suoi aspetti teorici. Nel testo Haber inserì i risultati dei suoi studi sull’equazione all’equilibrio dell’ammoniaca:

N2(g) + 3 H2(g) ⇌ 2 NH3(g) + ΔH

A 1000 °C, in presenza di un catalizzatore, si producevano piccole quantità di ammoniaca a partire dal diazoto (biossido di azoto) e dal diidrogeno (idrogeno molecolare) gassosi. Questi risultati lo incoraggiarono a proseguire la ricerca. Pertanto, nel 1907, in seguito a una rivalità scientifica con il suo futuro successore al premio Nobel, Walther Nernst, la fissazione dell’azoto divenne una priorità. Qualche anno più tardi, approfittando dei risultati pubblicati da Nernst sull’equilibrio chimico dell’ammoniaca, ed essendosi nel frattempo familiarizzato con i processi chimici a pressioni elevate e con un metodo per la liquefazione dell’aria, Haber giunse a sviluppare un nuovo procedimento.

Egli non aveva informazioni precise sui valori da imporre al sistema, tuttavia, al termine della sua ricerca, poté stabilire che un sistema efficace di produzione dell’ammoniaca doveva:
• Funzionare ad alta pressione (dell’ordine dei 20 Mpa);
• Utilizzare uno o più catalizzatori per accelerare la sintesi dell’ammoniaca;
• Funzionare a temperatura elevata (tra 500 e 600 °C) per ottenere il miglior rendimento in presenza del catalizzatore;
Poiché circa il 5% delle molecole di N2(g) e di H2(g) reagiscono a ciascun passaggio nel reattore chimico:
         • separare l’ammoniaca dalle altre molecole per liquefazione;
         • estrarre continuamente l’ammoniaca;
         • immettere di nuovo nel reattore le molecole di N2(g) e di H2(g) che non hanno reagito;
• Riciclare il calore prodotto.

Per controllare i problemi legati alle alte pressioni, Haber si avvalse del talento del giovane chimico-fisico inglese Robert Le Rossignol, che progettò le apparecchiature necessarie alla riuscita del processo. All’inizio del 1909 Haber scoprì che l’osmio poteva servire da catalizzatore. Nell’equazione chimica precedente, la reazione diretta è esotermica. Il calore prodotto può essere utilizzato per riscaldare i reagenti prima che entrino nel reattore. Nel marzo del 1909 Haber dimostrò ai suoi colleghi di laboratorio di aver trovato un procedimento capace di fissare l’azoto atmosferico in quantità sufficiente a poter prevedere un suo utilizzo industriale. Ne informò subito la BASF, ma la prima reazione del direttore della ricerca, August Bernthesen, fu scettica. Egli riteneva che nessun apparato industriale potesse sopportare a lungo pressioni e temperature così elevate. Inoltre, il potere catalitico dell’osmio poteva ridursi con l’uso, rendendo necessaria una sua periodica sostituzione, fatto negativo in ragione della sua poca abbondanza.

Intervenne allora il chimico, professore universitario e ricercatore della BASF Karl Engler, che scrisse al presidente della BASF convincendolo a una visita nel laboratorio di Haber assieme a Bernthesen e a Karl Bosch. Quest’ultimo si era in precedenza occupato di metallurgia, ma da anni lavorava sulla fissazione dell’azoto senza aver ottenuto risultati significativi. Bosch, particolarmente a causa dell’economicità del procedimento di Haber, fu decisivo nel convincere il presidente a sperimentare il processo. Nel luglio successivo la società, dopo che Haber e Bosch avevano ottenuto i primi millilitri di ammoniaca a partire dall’azoto atmosferico, decise di industrializzare il processo, indirizzando la ricerca verso un catalizzatore più affidabile.

La storia successiva del processo e dei miglioramenti che lo resero sempre più vantaggioso è da attribuire più a Bosch che ad Haber. Le squadre di ricercatori della BASF furono supervisionate da Bosch e riuscirono nel 1913 a trovare nel ferro il catalizzatore ideale e poco costoso. Fu sempre Bosch a dirigere i lavori delle prime grandi installazioni industriali per la produzione di ammoniaca con il metodo che da allora prese il nome di entrambi. Bosch avrebbe ottenuto nel 1931 il premio Nobel per le sue ricerche sulla chimica delle alte pressioni.


Haber ottenne dal successo del suo metodo onori accademici e un prestigio indiscutibile. Ma nubi fosche si stavano addensando sull’Europa e il vulcano che aveva accumulato energia per decenni esplose nell’agosto 1914, per il motivo piuttosto banale che un esaltato nazionalista serbo aveva ucciso il 28 luglio a Sarajevo l’erede al trono dell’Impero di Austria-Ungheria.

Ben presto ci si accorse che quella che doveva essere una Blitzkrieg era in realtà un massacro infinito di uomini impantanati in trincee fangose, reclusi dal filo spinato, esposti al tiro dei cannoni e delle mitragliatrici. La Germania, che era entrata in guerra con il piglio della giovane potenza che reclamava il suo posto nella storia, si ritrovò con il passare dei mesi sull’orlo del disastro. Le scorte e la capacità produttiva di munizioni, programmati dallo Stato Maggiore tedesco per un breve conflitto, si stavano rivelando totalmente inadeguati. Già dalla fine di settembre l’embargo navale inglese aveva fermato le importazioni del salnitro cileno utilizzato per la produzione di esplosivi. Fu subito formato un gruppo di esperti per trovare la maniera di uscire dalla trappola tecnologica nella quale si era andato a ficcare il Kaiserreich che combatteva su due fronti: a ovest con i franco-inglesi e a est con i russi. Del gruppo faceva parte Haber, che era diventato direttore dell’Istituto Kaiser Wilhelm, un organismo il cui scopo primario era di competere con gli istituti americani di ricerca. Il chimico divenne intimo dei membri del governo e si dimostrò subito un brillante scienziato e abile organizzatore, con un talento naturale per coordinare squadre di tecnici e ricercatori.

Fritz Haber considerava un suo dovere aiutare la patria in guerra, soprattutto ora che era stato investito di importanti responsabilità. Il processo tecnologico che aveva sviluppato per la sintesi dell’ammoniaca poteva, con opportune modifiche e miglioramenti in accordo con la BASF, colmare la disparità di armamenti rispetto al nemico. Era tuttavia comune convinzione che, anche aumentando la potenza di fuoco dei fucili e dei cannoni e inviando nuove truppe al fronte, la guerra non poteva essere vinta in poco tempo. Haber si convinse che una vittoria rapida poteva essere ottenuta solo se alla guerra fosse stata data una nuova dimensione tecnologica, introducendo un elemento di shock e di terrore, spostando in avanti le tradizionali linee di pensiero dello Stato Maggiore. Tale shock doveva essere causato dall’uso di armi chimiche al fronte, in grado non solo di costringere alla fuga o invalidare le prime linee nemiche, ma tali da essere inarrestabili, il più possibile mortali e tali da consentire alle truppe tedesche, provviste di adeguate protezioni, un’avanzata su un tappeto di morti. Haber era convinto che tale feroce strategia avrebbe costretto il nemico a capitolare rapidamente, salvando così tante vite.


A Ypres, in Belgio, il 22 aprile 1915, Haber supervisionò di persona il primo attacco con gas di cloro (la famigerata iprite) contro le trincee francesi e inglesi. Otto giorni dopo questo episodio Clara Immerwahr, sua moglie e collega, una delle prime chimiche laureate dell’Impero, si suicidò per il rimorso e perché stanca di essere trattata da semplice assistente dal marito. Haber invece continuò i suoi esperimenti mortali, convinto che bisognava anticipare le analoghe ricerche del nemico per vincere la guerra. Questo fu il suo errore principale: la guerra proseguì per altri tre anni, con la morte in trincea di milioni di uomini. Le armi chimiche letali, usate da tutti i belligeranti, non sortirono l’effetto da lui voluto, e si rivelarono un’inutile atto di ferocia perché meno efficaci delle armi tradizionali sul piano militare. Il loro uso su entrambi i fronti e la scia di morte provocata dal loro utilizzo indiscriminato portarono dopo la guerra alla loro messa bando basata su una sorta di equilibrio del terrore. Il divieto fu violato solamente nel 1935-36 dalle truppe italiane durante l’aggressione fascista all’Etiopia, ultima sciagurata avventura coloniale di una nazione europea. Non più utilizzati sui campi di battaglia, i gas tossici avrebbero rivelato tutta la loro mortale efficacia nei campi di sterminio del Terzo Reich.

Giudicata con la sensibilità odierna, l’idea di Haber è senz’altro tale da provocare orrore e condanna. Essa inoltre andava apertamente contro la Convenzione dell’Aia sulle Leggi e i Comportamenti di Guerra Terrestre del 1899, che proibiva agli stati firmatari l’uso di gas asfissianti o lacrimogeni. C’è da dire tuttavia che la Francia aveva utilizzato proiettili di granate riempiti di gas urticanti già nel primo mese di guerra, ai quali la Germania aveva risposto in modo analogo. Haber è responsabile di aver infranto l’ultimo tabù sulle armi chimiche, perché aperto sostenitore dell’uso di gas mortali.

Non sarà sfuggita al lettore un’analogia tra l’idea di Haber e ciò che sarebbe successo alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando un’inedita arma di distruzione di massa, la bomba a fissione nucleare, fu utilizzata per vincere le ultime resistenze del Giappone, per di più sulle popolazioni civili. Anche in quel caso si sarebbe trovata la giustificazione che un orrore così inedito, portando alla rapida capitolazione del nemico, avrebbe risparmiato numerose vite (soprattutto quelle delle forze americane nel caso si fosse dovuto invadere il Giappone). Forse la differenza tra lo sterminio chimico sul campo di battaglia e quello nucleare sulle città giapponesi risiede principalmente nel fatto che il secondo fu efficace e il primo non lo fu.

Fritz Haber aveva lavorato con determinazione e metodologia pienamente scientifica sui nuovi gas mortali, realizzando analisi dettagliate, curve sulla mortalità degli animali da laboratorio, studi sull’influenza delle differenti condizioni atmosferiche sull’uso in prima linea. Dal punto di vista “scientifico”, l’attacco di Ypres fu un successo, spingendo verso la prosecuzione della ricerca e lo sviluppo di nuove sostanze, anche da parte del nemico. Nell’autunno del 1915 fece il suo esordio sui campi di battaglia della guerra il fosgene, vera superstar tra le armi chimiche della Prima Guerra Mondiale, responsabile di più dell’80% dei morti causati da armi chimiche durante il conflitto. Questa volta i capiscuola furono i francesi, grazie all’inventiva di Victor Grignard, che aveva vinto il premio Nobel per la chimica nel 1912.


L’assegnazione del premio Nobel ad Haber nel 1918 per il suo metodo di sintesi dell’ammoniaca non mancò di sollevare indignate proteste in tutto il mondo, al punto che il premio gli fu consegnato solo l’anno successivo, ma la sua reazione aveva reso possibile la produzione su vasta scala di fertilizzanti artificiali per fornire ai campi di cerali l’azoto necessario. Per centinaia di milioni di persone nel mondo, la scoperta aveva allontanato lo spettro della fame, nel pieno rispetto dello spirito con il quale Alfred Nobel aveva istituito la sua prestigiosa onorificenza. Più che altro contò il fatto che il tedesco Haber ottenne l’onorificenza presentandosi a Stoccolma come rappresentante di un paese sconfitto.

Dopo la guerra, Haber tornò a dirigere l'Istituto di Fisica e Elettrochimica della Società Kaiser Wilhelm di Berlino, contribuendo alla ricerca sulle reazioni di combustione e sulla separazione per via elettrochimica dell'oro dall'acqua di mare. La sua leggenda nera è alimentata anche dal fatto che si interessò di pesticidi e mise a punto il procedimento per la sintesi dell'acido cianidrico, denominato commercialmente Zyklon B, che era originariamente destinato alla disinfestazione di pidocchi ed altri parassiti, e che fu successivamente utilizzato per assassinare i prigionieri nei campi di sterminio nazisti. Tuttavia Haber non ebbe nulla a che fare con l’uso che si fece più tardi delle sue scoperte, perché lo stato nazista non fu affatto riconoscente con l’illustre professore.

Dopo l’ascesa di Hitler al potere, il nazionalismo statale diventò nazionalismo etnico e razzismo. Haber nel 1933 divenne l’Ebreo Haber. Lasciata la Germania, si stabilì in Palestina e poi a Basilea, dove morì un anno più tardi. In una commemorazione semiclandestina tenutasi alla Società Kaiser Wilhelm, il cui Istituto di Chimica e Elettrochimica era stato diretto da Haber dal 1911 al 1933, un altro premio Nobel tedesco del 1918, Max Planck, sottolineò come senza la sintesi dell’ammoniaca la Germania avrebbe perso la guerra dopo pochi mesi, per ragioni economiche, mancanza di cibo, e militari, mancanza di munizioni. Planck tenne il suo discorso davanti a una platea di donne, le mogli dei professori. I mariti avevano preferito non esporsi, per “preservare i valori”.

Lo studio della controversa e, a suo modo, tragica figura di Fritz Haber offre numerosi spunti di riflessione. Egli fu figlio del suo tempo e delle idee che permeavano la cultura del suo paese. In quanto scienziato visse l’epoca in cui diventò chiaro che era quasi impossibile per un inventore fermarsi allo stadio di benefattore dell’umanità. Nessuna società può, e poteva allora, assicurare che una nuova tecnologia sia utilizzata solo per scopi umanitari. È pertanto difficile imputare a un inventore tutti gli usi che vengono fatti della sua invenzione. D’altra parte, la nostra umanità non consentirà mai che le questioni etiche vengano ignorate, sollevando la questione della responsabilità morale degli scienziati. Se Haber fu una sorta di dottor Faust del Novecento, la sua colpa principale è di essere stato il primo, ma non sicuramente l’unico.


Dunikowska M, & Turko L (2011). Fritz Haber: the damned scientist. Angewandte Chemie (International ed. in English), 50 (43), 10050-62 PMID: 21956893

sabato 17 dicembre 2011

Manifesto degli Intellettuali Italiani per la difesa dall’idiozia razzista

1) Le razze umane "pure" non esistono, gli idioti purtroppo sì.

L’esistenza di razze umane pure è stata ormai smentita dalla scienza in base a evidenze fornite da molte discipline, in particolare dalle prove genetiche e dagli studi di genetica delle popolazioni. È tuttavia l’esistenza degli idioti non già un’astrazione del nostro spirito, ma corrisponde a una realtà fenomenica, materiale, percepibile con i nostri sensi. Questa realtà è rappresentata da masse di imbecilli costituite da milioni di uomini simili per ignoranza, egoismo, problemi mentali e psicologici che trovano il loro legame in ideologie razziste per affermare con l’odio di gruppo il loro fondamentale fallimento come individui.

2) Esistono idioti isolati e idioti organizzati.

Non bisogna soltanto ammettere che esistano gli idioti, che comunemente ammorbano la società in ogni ambito materiale, politico, economico, produttivo, educativo, religioso, ma bisogna anche ammettere che esistono gruppi sistematici di idioti organizzati in movimenti, partiti, chiese, consorterie la cui pericolosità è accresciuta dal numero, dall’organizzazione e dalla propaganda.

3) Il concetto di idiota è concetto soprattutto territoriale.

Esistono idioti che si richiamano a identità politiche, religiose, culturali, persino calcistiche. Tuttavia i gruppi di idioti organizzati trovano la loro espressione più evidente nel supposto legame a un territorio, vincolo di sangue con la terra delle madri, dato che quasi sempre la loro paternità è incerta o decisamente attribuibile a pratiche di meretricio. Il razzista nazista o fascista si richiama ad esempio a un astratto concetto di purezza della razza, ereditato dalle ideologie totalitarie fiorite nel Novecento. L’idiozia fascista è la più pericolosa in termini di violenza dei suoi accoliti, in genere maschi solitari con il culto delle armi e difficoltà di socializzazione che possono spesso esprimere la loro intima pochezza come individui in eclatanti atti di aggressività individuale o di gruppo. Più pericoloso in termini culturali e politici, a questi si aggiunge il razzismo egoista e particolarista di movimenti pseudopolitici nati negli anni ’70 del Novecento come distorsione idiota dei movimenti di liberazione nazionale dei popoli oppressi da stati centralisti, come i baschi, gli irlandesi, i palestinesi, di cui costituisce una degenerata caricatura. In tale caso il razzismo si fonda ancor di più sull’ignoranza totale della storia, cui si accompagna l’invenzione di matrie mai esistite, di eredità presunte e infondate con popoli estinti da migliaia d’anni e di legami comuni tra culture separate, accomunate dalla sola contiguità geografica.

4) La particolare forma di idiozia organizzata dell’Italia settentrionale.

L’idiozia organizzata territoriale ha trovato la sua espressione più significativa nel fiorire nell’Italia Settentrionale di un movimento che i sé riassume, organizza e moltiplica tutte le caratteristiche sopra descritte. Nato come movimento di contestazione al centralismo romano, si è sempre più identificato nella figura del suo leader carismatico, l’idiota originario, Uridiot, del quale ha seguito la parabola di progressiva adesione alle regole più detestabili della partitocrazia, della demagogia e della corruzione. La politica ondivaga di alleanze, di linea economica, di slogan, segna, pur nella costanza di una volgarità particolare, l’intento del capo e dei suoi accoliti di perpetuare il proprio potere, a spese della decenza, dello stato e persino dei propri elettori, accecati all’ennesima potenza dall’egoismo e dalla paura di ogni elemento che possa mettere in discussione la loro meschina identità.

5) L’idiozia razzista è una piaga nazionale.

Il clima di crescente intolleranza verso il lo straniero e verso il diverso che affligge il nostro paese è una piaga che ostacola lo sviluppo economico e la sua reputazione all’estero. Ciò in particolare se tali manifestazioni di idiozia razzista sono apertamente praticate da rappresentanti delle istituzioni e membri della classe politica. Nell’indifferenza e nell’ignavia di chi avrebbe dovuto produrre e diffondere gli anticorpi culturali e sociali contro il razzismo, morbo indicatore dell’idiozia di massa, la malattia si è diffusa a livelli preoccupanti e merita interventi decisi e definitivi.

6) Gli idioti non appartengono alla società italiana.

Il nostro paese, che un tempo illuminò il mondo con le conquiste in ogni campo del sapere, dell’arte e della scienza, sta rapidamente scendendo la scala della civiltà a causa della signoria degli idioti. In realtà, mettendo in discussione e minacciando i fondamenti della società e lo spirito stesso dell’Italia, essi non appartengono alla sua cultura e alla sua tradizione. Gli idioti rappresentano l’unica parte di popolazione che ha sempre ostacolato il progresso sociale, economico e culturale del paese.

7) È tempo che gli Italiani si proclamino francamente contro gli idioti.

La tolleranza verso l’intolleranza è essa stessa cedimento verso l’intolleranza. E’ tempo che il potere degli idioti nelle istituzioni e nel cuore della società italiana venga definitivamente abbattuto. È necessario attuare politiche di discriminazione ad ogni livello per isolare la pericolosa idiozia razzista. Si deve creare nella cittadinanza un sano principio di repulsione verso l’ideologia razzista e verso i suoi propugnatori.

8) L’Italia deve difendersi dall’idiozia razzista ad ogni livello.

L’idiozia razzista non può più essere tollerata. Le istituzioni devono essere costantemente spronate ad attuare serie politiche contro il razzismo e contro i razzisti, separandoli dal corpo sano della società civile con tutti gli strumenti che la legge dispone. I razzisti devono essere esclusi dalle cariche elettive e dai concorsi pubblici e non possono essere membri delle forze armate. Ogni singolo individuo può e deve manifestare liberamente il proprio disprezzo verso i razzisti. Nelle nostre strade e nelle nostre case, nei luoghi di produzione e sui mezzi di trasporto, sempre più frequente deve sentirsi la frase “Lei è un razzista, quindi è un idiota e mi fa schifo”.

mercoledì 14 dicembre 2011

Carnevale della Matematica n. 44


Quarantaquattro! Benvenuti al Carnevale della Matematica di dicembre, il quarantaquattresimo da quando è iniziata la sua avventura italiana. Numero senza fama speciale, da noi è noto per ricordare una particolare disposizione di gatti, soprattutto per chi ha potuto vivere i tempi lontani in cui si studiavano davvero le tabelline (era lo Zecchino d’Oro del 1968):


Il numero 44 si fattorizza come 22 × 11, ovviamente è palindromo e, beato lui, è un numero felice, cioè appartiene alla schiera dei numeri positivi le cui singole cifre, elevate al quadrato e poi sommate iterativamente, alla fine danno come risultato 1:

44 → 42 + 42 = 16 + 16 = 32
32 → 32 + 22 = 9 + 4 = 13
13 → 12 + 32 = 1 + 9 = 10
10 → 12 + 02 = 1 + 0 = 1

I suoi numeri divisori sono 1, 2, 4, 11 e 22. Poiché la somma dei divisori è 40, che è minore di 44, è un numero difettivo. Lo troviamo come quarto numero ottaedrale nella sequenza A005900 dell’OEIS. Un numero ottaedrale è un numero figurato poliedrico che rappresenta il numero di sfere identiche impacchettate in modo compatto a formare un ottaedro. Troviamo il 44 anche come numero Tribonacci, particolare successione derivata da quella di Fibonacci nella quale ogni termine si ottiene sommando non i due, ma i tre precedenti. Fissati 1, 1 e 2, si ottiene infatti: 1, 1, 2, 4, 7, 13, 24, 44, … (Sequenza A000073 dell'OEIS). Per gli amanti delle sensazioni forti è utile sapere che c’è anche la successione Tetranacci, ma il nostro protagonista non è dedito a pratiche così ardite. L’ultima informazione che mi sembra degna di nota è che in combinatoria sono 44 le permutazioni complete (o dismutazioni) che si possono ottenere da un insieme formato da 5 elementi (in una dismutazione nessuno degli elementi dell’insieme iniziale compare nella sua posizione originaria).

Al di fuori della matematica, segnalo che 44 è il numero atomico del rutenio, è il prefisso telefonico per chiamare il Regno Unito (sempre che Cameron non tagli anche i cavi sotto la Manica e chiuda il tunnel), nella smorfia indica “la prigione” e che Barack Obama è il 44° presidente degli Stati Uniti.

Il tema proposto per questa edizione, come al solito non vincolante, è “Storia e storie della matematica”, argomento quanto mai vasto, che merita qualche considerazione. Che siano scoperte o inventate, massimamente astratte (infiniti più grandi di altri infiniti!) o concretamente applicate (dalle operazioni relative al commercio alla regolazione dei flussi del traffico), le matematiche sono discipline umane, fatte da uomini, con i loro pregi e difetti. E gli uomini vivono nella storia, che condiziona l’evoluzione del pensiero ed è a sua volta da essa condizionata. Così il sapere matematico, che vive nel tempo umano, si è accumulato nei secoli su quello precedente, mediante un processo che ha conosciuto rallentamenti o rivoluzioni, avanzamenti in un campo e interruzioni momentanee in un altro, ma che nel complesso non si è mai fermato. Non è vero che siamo nani sulle spalle di giganti, gli uomini sono sempre gli stessi, ma anche per la matematica può valere, millennio più o millennio meno, quello che disse Napoleone ai suoi soldati durante la campagna d’Egitto: dall’alto di quelle piramidi quaranta secoli di storia ci guardano.

La matematica è pratica umana e procede per tentativi ed errori, per singole intuizioni geniali o come frutto di collaborazione e controllo reciproco. Parlare di storia delle matematiche vuol dire anche parlare delle storie degli uomini che se ne sono occupati, del loro quotidiano, delle loro biografie, persino di singoli aneddoti, che tuttavia non devono rimanere confinati alle curiosità erudite o da salotto, ma devono servire a capire come lo sviluppo di questa meravigliosa disciplina è avvenuto non solo con arditi voli della mente (assai più rari di quanto si pensi), ma attraverso il sudore, la fatica intellettuale e fisica, l’applicazione costante e talvolta noiosa (e un bravo a chi ha capito la fonte). Le matematiche sono anche questo.


Ecco ora i contributi giuntimi, tutti accompagnati da parole simpatiche e gentili per le quali ringrazio tutti i numerosi partecipanti. Per semplicità espositiva, segnalo prima i contributi relativi al tema proposto, poi gli altri.

Primo in ordine cronologico, Dioniso segnala dal suo Blogghetto i link alle tre parti della prima giornata di lezione del neo-insegnante Eratocle al neo-matematico Eurito, relativi al teorema di Pitagora. L’amico blogger per ottenere il testo ha dovuto impegnarsi in una catabasi nell'Ade, sulle orme del suo collega musicista Orfeo. “Con audace sprezzo del pericolo e maschia determinazione”, il nostro è riuscito così ad avere da Cerbero una copia della biografia di Pitagora, che ci propone in esclusiva: Le lezioni di Eratocle: il teorema di Pitagora (prima parte), (seconda parte) e (terza parte).

Su Science For Passion, l’amica Tania Tanfoglio tratta il tema come più in tema non si può. Così lei stessa presenta Anche i numeri hanno una storia: “I 10 simboli che utilizziamo ogni giorno hanno una storia che viene da lontano ed ha molto da insegnarci. Chissà come sarebbero i nostri simboli numerici se, invece di avere una derivazione indo-araba, avessero risentito dell'influenza cinese o quella dei Maya?” L’articolo di Tania si chiude in modo spiritoso proponendo ai ragazzi il problema dei conigli di Leonardo Fibonacci.

Esordiente nel Carnevale, Maria Messere, insegnante nell’ITCGT “Salvemini” di Molfetta, ha inviato il collegamento a Magie del cerchio, contributo nel quale racconta come gli antichi Greci seppero sfruttare le ricchissime possibilità geometriche della circonferenza, creando numerose figure dalle proprietà originali che battezzarono con i nomi di oggetti di uso quotidiano, come l’arbelo o la drepanoide. L’articolo è una buona occasione per conoscere il blog di Maria, dal simpatico nome Matematica… che piacere!

Leonardo Petrillo di Scienza e musica ci fa fare un lungo salto, dal tempo dei Greci fino all’epoca moderna, segnalando l’articolo Il più grande matematico italiano del XVIII secolo: Lagrange, nel quale analizza la figura di Joseph Louis Lagrange, o, in italiano, Giuseppe Lodovico (Luigi) Lagrangia, uno dei più importanti matematici del XVIII secolo. Oltre ad addentrarsi all'interno della vita ricca di riconoscimenti di Lagrange, il contributo si sofferma sul capolavoro di Lagrange, l'opera Meccanica analitica, e successivamente sul teorema del valor medio, relativo all'analisi matematica, che prende anche il suo nome.

Il preclaro .mau., padre del Carnevale italiano, ha giustamente ritenuto necessario sottolineare sulle sue Notiziole che non si può parlare di storia della matematica senza ricordare La rivoluzione dimenticata, il libro nel quale Lucio Russo sostiene come quello che sappiamo della scienza dell'antichità (e della matematica, ça va sans dire) potrebbe essere del tutto errato, e che gli Antichi erano molto più esperti... almeno fino a quando i Romani non hanno distrutto tutto. Sempre dalle Notiziole, .mau. segnala un altro libro, Una certa ambiguità degli indiani Gaurav Suri e Hartosh Singh Bal: come dice il sottotitolo, "un romanzo matematico". In un certo senso, una storia matematica ambientata tra il 1919 e oggi.

Dalla sua seguitissima rubrica sul Post, .mau. ci invita a leggere tre articoli che hanno tutti in qualche modo a che fare con la storia della matematica. Parole matematiche: seno, una parola che sia nel senso matematico che in quello comune deriva in un certo senso da un errore... Quaternioni e ottetti (per non parlar di sedenioni), nel quale, attraverso la storia di William Rowan Hamilton, si vede che con i numeri immaginari non sono finite le possibilità di creare numeri, a patto di cedere qualcosa. Fresco di pubblicazione, Morra prende in considerazione il gioco della morra, che, compresa la sua variante "morra cinese" (che a dire il vero c'entra ben poco con l'originale), nasconde alcune interessanti considerazioni matematiche.

Erasmo Modica, ci ricorda che Matematica Blog Scuola ha cambiato indirizzo è si è trasferito in una casa più bella, sempre pronto tuttavia ad accogliere studenti e insegnanti con lo stesso calore. Sul nuovo indirizzo Matematica Orizzontescuola, sono presenti delle schede di Storia delle Matematiche, rivolte agli studenti delle Scuole Secondarie di Secondo Grado, che fanno parte di una serie che verrà proseguita nel corso dell'anno scolastico. Le prime tre riguardano La matematica preistorica, La matematica mesopotamica e un breve excursus storico che porta Dai numeri naturali ai numeri interi, mentre la quarta riguarda la Matematica egiziana. L’ultimo contributo di Erasmo ci spiega invece Che cos’è l’etnomatematica?, cioè l’insieme delle ricerche sulle relazioni tra le matematiche e i rispettivi contesti socio-culturali che mettono in luce come le matematiche vengano prodotte, trasferite e diffuse nei differenti sistemi culturali: un approccio diverso sulla matematica dei vari popoli del mondo.

Visto che siamo in tema di traslochi di interi blog, segnalo la titanica impresa alla quale è stata costretta Annarita Ruberto, alla quale la chiusura della piattaforma Splinder ha ingiunto lo sfratto esecutivo con conseguente cambiamento di indirizzo (e molto altro) per i suoi blog Scientificando e Matem@ticamente. Senza perdersi d’animo, Annarita si è messa al lavoro e ha già praticamente concluso il suo daffare con mobili e cartoni: i collegamenti precedenti portano ai nuovi indirizzi. Questo mese Annarita ci segnala su Matematic@mente Storie di numeri di tanto tempo fa – Capitolo 10, con il quale si conclude la pubblicazione della traduzione dello storico libretto originale di David Eugene Smith Number Stories of Long Ago, curata da Anna Cascone. Alla fine dell’articolo si trovano i link ai nove capitoli già pubblicati.

A cavallo tra storia e teoria si collocano le segnalazioni di Roberto Zanasi, autore su Gli studenti di oggi di una trilogia su come si possa trovare il pi greco nei posti più inaspettati. Si parte da Le magie di Eulero, nel quale si discute del cosiddetto problema di Basilea, che consiste nel trovare il valore cui tende la somma degli inversi di tutti i quadrati dei numeri naturali, risolto dal matematico svizzero, si prosegue esaminando come si comporta La serie geometrica, che viene usata, assieme al risultato del problema di Basilea, per il calcolo della probabilità che due numeri interi scelti a caso siano primi tra loro. Il pi greco si trova proprio Come il prezzemolo! A me il metodo dialogico utilizzato dallo Zar piace tantissimo, scusate la manifestazione di un parere personale.

Ed eccoci ai contributi storici” dei Rudi Matematici, i quali, in quanto a storia, sono essi stessi oggetto di studio: la loro autorevole e-zine di matematica ricreativa Rudi Mathematici, fondata nello scorso millennio, è giunta questo mese al numero 155. A nome di tutto il trio, Piotr R. Silverbrahms segnala innanzitutto due “compleanni”, quello, celebrato il 17 novembre, di August Möbius (17 Novembre 1790 – Buon compleanno August!, introdotto dall’Infinito di Leopardi) e quello, improprio ma doveroso, della patria, nella forma di un omaggio ai matematici dei gloriosi anni del riscatto nazionale (Risorgimento!, introdotto dal Canto degli Italiani di Goffredo Mameli). Non posso nascondere che le citazioni poetiche e l’anelito patriottico dei Rudi hanno fatto scaturire dai miei occhi occhialuti una furtiva lacrima.

Gianluigi Filippelli, poliedrico e poliglotta divulgatore di vaglia, manda i link a due articoli comparsi su Dropsea: Il paradosso del voto è la traduzione di un post in spagnolo dedicato al paradosso di Condorcet sui sistemi elettivi, mentre Quei matematici dei contadini russi: moltiplicazioni è, oltre che un omaggio al suo professore di matematica del liceo (che deve essere stato un sant’uomo e un genio a tirar fuori un fisico da quello scavezzacollo), un pezzo sui contadini russi che svilupparono un metodo interessante per calcolare il prodotto tra due numeri. Si tratta in effetti di un piccolo saggio dell’etnomatematica della quale ha parlato Erasmo Modica.


La prima parte di questo Carnevale, quella dedicata agli articoli in qualche modo aderenti al tema proposto, termina qui. Prima di dedicarmi ai contributi a tema libero, voglio segnalare una bella notizia che è giunta recentemente da Siracusa, dove da qualche giorno è stato aperto l’Arkimedeion, il museo interattivo di Archimede, che consente al visitatore di ripercorrere la vita del grande genio e di cimentarsi con le sue idee straordinarie in ogni campo del sapere, matematica compresa. Si tratta anche del primo museo multimediale scientifico del Sud Italia, realizzato con la collaborazione di enti pubblici e privati e di diverse Università. Finalmente una nuova eccellenza della didattica e della divulgazione scientifica nel nostro paese.

La seconda parte del Carnevale n. 44 inizia con il contributo di Maestra Rosalba, Rosalba Cocco, che ci invia il collegamento a un suo delizioso articolo comparso su Crescere Creativamente. Si tratta di Giochini matematici: Pensa un numero, un gioco utile a esercitarsi nei calcoli mentali veloci, una delle tante attività dimenticate che tempo fa avevano un ruolo significativo e meriterebbero di essere rivalutate sin dalla scuola primaria.

Mariano Tomatis, con la sua consueta ironia, ci regala una piccola storia adatta a questi tempi di crisi. Dal Mariano Tomatis blog, Il 200% di niente ci narra come si possa essere felici anche con un buco in tasca e di come la matematica elementare possa essere utilizzata per alimentare l’ottimismo.

Sempre appoggiata sui pilastri della letteratura e della musica, l’architrave matematica di Paolo Alessandrini, curatore di Mr. Palomar, questo mese è decorata con Specchi, sogni e frattali, un articolo che, prendendo le mosse da uno spunto borgesiano (una frase del racconto Tlön, Uqbar, Orbis Tertius), affronta il tema degli "specchi" dal punto di vista matematico, arrivando a parlare dei fenomeni di feedback visivo e uditivo, spingendo la metafora fino al concetto di "sogno". Poiché il retroterra matematico è rappresentato dalle successioni indotte da funzioni iterative, da queste ai frattali il passo è breve. Essendo io un grande appassionato dello scrittore argentino e delle problematiche che affronta, non posso che consigliare la lettura di questo post.

Torno a Roberto Zanasi e a Gli studenti di oggi per presentare un articolo di stretta attualità, con riferimento alla conferenza stampa di ieri a Ginevra sul bosone di Higgs. Sigma è infatti una lezione di statistica, che ci ricorda che l’affidabilità delle nostre osservazioni può essere misurata e solo dopo una certa soglia possiamo annunciare una scoperta. I contributi di Roberto terminano con la segnalazione di un libro, Il professor Apotema insegna: il calcolo delle differenze e il calcolo differenziale, nuovo episodio della saga scritta da Giorgio Goldoni sul mitico professore di matematica, che tratta, con l'approccio iperreale, argomenti molto noti, come le derivate, lo studio di funzione e i problemi di massimo e minimo, e altri poco noti, come il calcolo delle differenze, che sarebbe l'analogo discreto del calcolo differenziale.

In questa seconda parte ritroviamo ancora .mau., con altri quattro articoli comparsi sulle Notiziole. Inutilità è una considerazione sulla fattorizzazione del suo numero di telefonino, dove la parte più interessante sono i commenti con le stime di probabilità che un numero di cellulare sia primo. Indice di saturazione dei mezzi e delle banchine è un commento a una dichiarazione illogica del neopresidente dell’Atm milanese Bruno Rota, che rende ragione anche del perché il bus che aspettiamo non passa mai. Matematicaterapia (libro) è la recensione del libro di Ennio Peres con amene pillole matematiche ma non solo: consigliato ai non matematici che non hanno timore di scoprire che la matematica può anche fare bene, e non solo far rischiare l'infarto. Infine, in Un'immagine o mille parole?, .mau. commenta da par suo un grafico economico che mostra come si è comportata la differenza tra i nostri tassi di interesse e quelli tedeschi, e al contempo come si è comportata la differenza tra il valore delle azioni Mediaset e quello del comparto TLC-Media.

Ancora un trasloco: ma non doveva essere intorno a San Martino e non a Santa Lucia il periodo dei cambiamenti di residenza? Roberto Natalini ci informa infatti che il blog Dueallamenouno cambia indirizzo, “con tanto di imbarazzante fotona”. I due articoli per il Carnevale vengono proprio dalla rubrica di Roberto su L’Unità, dato che Maddmaths è in fase di aggiornamento e i curatori sono affaccendati con una nuova e stimolante iniziativa museale di cui ci riferiranno. Il primo post segnalato è Facciamo finta che tu sia un matematico, che tratta di che cosa vuol dire dimostrare un teorema e dei meccanismi di controllo per verificare se la dimostrazione è giusta: dietro le quinte del peer-reviewing. Il matematico e l'autovelox affronta invece la questione di che cosa vuol dire fare un modello matematico e di come accertarsi che funzioni (facendo attenzione a non prendere una multa clamorosa…).

Claudio Pasqua di Gravità Zero ci rende partecipi di una bella iniziativa realizzata per gli alunni della Scuola Primaria con il coordinamento di un team di bravissime maestre: Cristina Sperlari (che già tutti conosciamo per le partecipazioni al Carnevale con il suo blog Il piccolo Frederich), Marta Anni di Verolavecchia (BS) e Susanna Ravani di Cremona. Gli alunni della Scuola Primaria risolvono "Un bel problema" ci riferisce di come, da una riflessione di Cristina sulla nuova rivista Mondo Erre (dedicata ai ragazzi della scuola secondaria di primo grado, ma che può essere adatta anche a quelli che frequentano gli ultimi anni della scuola primaria), e cioè “Quante volte a scuola vi hanno consegnato dei problemi di matematica senza alcun senso pratico?”, sia nato un gioco a premi per stimolare i ragazzi a rendersi conto di quanta irrealtà possa stare dietro a "situazioni matematiche" che spesso vengono loro sottoposte a scuola. Insomma un invito a una maggiore aderenza alla realtà vissuta dai più giovani.

Avevo lasciato i Rudi Matematici con una patriottica lacrimuccia che non rende giustizia alla loro verve, al loro spi-ri-toh! Riprendo a riferire dei loro contributi per questo Carnevale, dapprima con “il rituale, tradizionale e contrattuale articolo di soluzione del quiz” che è stato pubblicato sull’edizione cartacea de Le Scienze: Il problema di Novembre (519) – La carta (anzi il dado) dei vini. A seguire, un “superbo Paraphernalia del perfettissimo Rudy” (cit. Piotr), che ci illumina sulle Frazioni continue aritmetiche e su come possano essere utilizzate per il calcolo delle radici quadrate di numeri interi e irrazionali. L’ultima segnalazione riguarda l’usuale strenna natalizia dei Rudi, il celebre Calendario dei RM, uscito appena ieri e disponibile per essere scaricato in pdf. Esiste persino l’edizione in inglese, vera chicca per collezionisti!

Come vuole la tradizione, concludo la presentazione con i collegamenti agli articoli del blog ospitante. Marco Fulvio Barozzi (io) ha pubblicato qui su Popinga le seguenti cose che ritiene utile segnalare: I matematici di Flatlandia (1) e (2), piccoli giochi grafici su quale potrebbe essere l’aspetto di alcuni grandi matematici della storia in un mondo a due dimensioni, Problemi matematici per gli ebrei sovietici, che parla di come alcuni problemi che venivano assegnati nelle prove orali di ammissione al Dipartimento di Matematica dell’Università Statale di Mosca erano predisposti in modo da richiedere soluzioni elementari che tuttavia erano assai difficili da trovare. Essi erano concepiti come veri e propri “tranelli” per non ammettere al Dipartimento gli studenti indesiderati, che erano gli studenti ebrei. L’ultimo contributo è dedicato a un mio amico di Facebook, ricercatore del CERN, che quest’anno ha esordito come scrittore pubblicando un thriller in cui la matematica è protagonista: Il mondo sotto chiave di Daniele De Pedis. Un’intervista.

Siamo giunti alla fine di questa edizione del Carnevale della Matematica, l’ultima del 2011, l’anno che ricorderemo come l’ultimo in cui si poteva andare in pensione ancora da vivi. Il 2012 si aprirà con l’edizione n. 45, che sarà ospitata da Annarita Ruberto sul nuovo Matem@ticaMente, con il tema "teoria della computazione (informatica moderna; algoritmi e computazione; grammatiche; automi...)".

Questo carnevale è stato illustrato dalle opere della giovane pittrice di Hong Kong Suman Vaze, un’artista che dichiaratamente si ispira alla matematica.