mercoledì 20 luglio 2011

sabato 16 luglio 2011

Soggetti smarriti, riscritti e ritrovati

Strano destino quello dei personaggi letterari. C’è chi è stato creato da un autore e poi viene rifiutato prima ancora che abbia inizio la rappresentazione, e allora s’arrangia da solo, c’è chi continua la sua vita semplicemente cambiando autore, ma rimanendo nella stessa storia, c’è chi torna vent’anni dopo, c’è infine (ma questo infine non esaurisce la casistica, è solo che non posso andare avanti così per tutto l’articolo), c’è infine, dicevo, chi torna nella vita normale e affronta la quotidianità come tutte le altre persone, solo che non può dimenticare quella che è stata, nel bene e nel male, la sua esperienza.

Di questi ultimi si occupa Enrico Mazzardi, che è andato ad indagare il destino post–letterario di alcuni di essi, in un libro che, portandoli a nuova vita e facendoli vivere nuove vicende, li ha restituiti al mondo della letteratura, in un gioco di rimandi e slittamenti che alla fine il lettore non sa più se Renzo Tramaglino è vissuto felice e contento con Lucia Mondella oppure è stato lasciato, se Mattia Pascal diventa Adriano Meis dopo essere “morto” oppure i due personaggi convivono in un delirio bulimico e schizofrenico, se il professor Van Helsing continua ad essere il nemico di Dracula oppure un vecchio paranoico che diffida anche dell’AVIS.

Il libro di Mazzardi si intitola Soggetti smarriti (Questi non sono i Promessi Sposi) ed è uscito in aprile presso le Edizioni Il Foglio di Piombino con una dotta postfazione di Paolo Albani. Ora, chiunque conosca Albani sa che è un gran giocherellone e le sue preferenze vanno ai giocherelloni come lui, a coloro che non considerano mai un’opera letteraria qualcosa di intoccabile, ma un materiale che può essere riscritto e riciclato, con una concezione molto ecologica della letteratura che tanto bene farebbe al nostro panorama editoriale. Anch’io condivido questa idea.

Di Mazzardi già conoscevo gli interventi su Tupolev! (una volta Teflon), l’intelligente rivista letteraria online che ha fondato assieme a quell’altro strano soggetto, per ora non ancora smarrito, che risponde al nome di Mattia Filippini. Così ho ordinato il libro e l’ho letto, scoprendo che la signorina Provvidenza, tanto esaltata dal Manzoni, è in realtà un gran puttana e che sbagliare a sillabare il cognome Bartegazzi può cambiare una vita. Sono cose che lasciano il segno e per le quali val la pena spendere i 12 euri del prezzo di copertina.

giovedì 14 luglio 2011

Carnevale della Matematica n. 39


Oggi è il 14 luglio, festa nazionale dei nostri cugini francesi (allonsanfan…) e giorno del Carnevale della Matematica n. 39, ospitato questo mese da Maurizio Codogno (a lui ogni onore e gloria avendo fondato questa bella e intelligente manifestazione). Su Notiziole di .mau. troverete una bella edizione, dedicata stavolta ai giochi matematici (tema come al solito non vincolante), ma piena zeppa di articoli intelligenti e stimolanti inviati da 14 blog, tra i quali segnalo l’esordio de Il piccolo Friedrich di Cristina Sperlari, un blog di didattica delle scienze e della matematica nella scuola primaria, ma utile per tutti, insegnanti oppure no.

Il Carnevale n. 40 avrà luogo qui da me il 14 agosto. Il tema suggerito è “Quant’è bella geometria”, per cui i partecipanti potranno sbizzarrirsi sul tipo di geometria che vorranno, nelle dimensioni e con la curvatura che più aggraderà loro, magari anche con riferimenti proiettivi, topologici e quant'altro. Considerate questa notizia come il primo call for papers.

Vive la France, vive le Carnaval des mathématiques!

mercoledì 13 luglio 2011

In difesa di Hubble

ResearchBlogging.orgLe recenti accuse a Edwin Hubble di aver censurato il fondamentale lavoro di Lemaître sull’espansione dell’universo, di cui ho dato conto in un recente articolo di questo blog, erano troppo clamorose per non sollevare obiezioni e articoli di opposto parere. Così, l’astrofisico israeliano Giori Shaviv, del Dipartimento di Fisica del Technion Israel Institute of Technology di Haifa, in occasione della prossima uscita presso Springer del testo The Quest for Chemical Element Genesis and What the Chemical Elements Tell about the Universe, prevista tra due mesi, ne anticipa alcuni contenuti in un paper pubblicato su ArXiv il 5 luglio scorso, presentandoli con queste chiare parole: “Our summary: We exonerate Hubble from the charge that he censored or ignored or plagiarized Lemaitre's earlier theoretical discovery” (La nostra sintesi: Esoneriamo Hubble dall’accusa di aver censurato, ignorato o copiato la precedente scoperta teorica di Lemaitre). Come ho cercato di fare a proposito delle accuse mosse da David L. Block e Kenneth C. Freeman, illustro le argomentazioni di Shaviv e del suo gruppo, in modo che il lettore possa farsi un’opinione il più possibile informata, ma non rinuncio in coda a esprimere un piccolo dubbio.

Si alzi allora il sipario ed entri il primo personaggio di questa nuova rappresentazione: sbuca dalle quinte la barbetta bianca del matematico, fisico e astronomo olandese Willem de Sitter (1872-1934). Non appena Einstein pubblicò nel 1915 la Teoria Generale della Relatività, anch’egli cercò di applicare le idee del tedesco all’intero universo. Entrambi, che erano in contatto epistolare, intrapresero le loro speculazioni ipotizzando un universo senza massa o, per essere più precisi, ignorando la pressione al suo interno. Per il comportamento dell’universo Einstein investigò una soluzione statica, mentre de Sitter, in tre articoli pubblicati tra il 1916 e il 1917 sugli Atti dell’Accademia Reale Olandese di Arti e Scienze, ne cercò una dinamica, in quello che da lui avrebbe in seguito preso il nome di universo di de Sitter. Nella sua assunzione, la materia non influenza i risultati, e la dinamica è influenzata solo da una costante cosmologica positiva. In poche parole, l’ipotesi di de Sitter comporta, come avrebbe dimostrato nel 1922 l’ungherese Cornelius Lanczos (o Löwy) con un semplice cambio di coordinate, che l’universo si espande. Furono in gran parte le pubblicazioni dell’astronomo olandese a convincere Arthur Eddington a organizzare la famosa spedizione in occasione dell’eclisse del 1919 di cui si è parlato nel precedente mio articolo. Inoltre, de Sitter seppe prevedere che le righe spettrali degli oggetti lontanissimi si sarebbero spostate verso il rosso, proprio come fu in seguito osservato da Hubble. La soluzione di de Sitter precedette il grande dibattito sulla natura delle galassie, così egli ancora non sapeva dell’esistenza di altre galassie oltre la Via Lattea. Egli stimò per le stelle di luce più debole, e quindi più lontane, uno spostamento di meno di 1/3 km/s. Einstein, allora pervicacemente convinto di un universo stazionario, criticò questa soluzione, al punto da scoraggiare l’olandese dall’occuparsi di cosmologia per almeno una decina d’anni, fino a quando Hubble tornò a parlare di espansione. I rapporti tra de Sitter e Einstein si improntarono a una freddezza che fu abbandonata solo all’inizio degli anni Trenta, quando i due ripresero a collaborare.

Un altro personaggio che è giusto far comparire sulla scena è il grande matematico e cosmologo russo Alexander Friedmann (1888-1925), occhialini rotondi e aspetto da trotskino intellettuale ed emaciato. Egli nel 1922 diede una soluzione diretta per le equazioni di campo della relatività generale, senza ricorrere a cambi di coordinate, dimostrando la possibilità sia di uno stato stazionario, sia di un universo in espansione. Furono questi raffinati studi teorici che avrebbero consentito le ipotesi di Hubble. I suoi articoli del 1924 inaugurarono poi lo studio delle curvature dello spazio (positiva, zero e negativa), dieci anni prima delle analisi di Robertson e Walker. L’ipotesi stazionaria sarebbe stata abbandonata alla fine del decennio, non appena risultò chiaro che non si accordava con le osservazioni.

Nel 1927, nell’articolo Un Univers homogène de masse constante et de rayon croissant rendant compte de la vitesse radiale des nébuleuses extragalactiques, pubblicato su una rivista scientifica belga non molto conosciuta e tradotto in inglese, come si è visto, infedelmente e con insolito ritardo, Lemaître scoprì indipendentemente da Friedmann le soluzioni all’equazione di Einstein che giustificavano l’ipotesi di un universo in espansione. Solo un anno più tardi anche il matematico e cosmologo americano Howard Percy Robertson arrivò alle stesse conclusioni, ignorando l’articolo del prete belga.

In queste prime fasi dello sviluppo delle idee non era chiaro che cosa era veramente successo all’”inizio dell’universo”. C’era una singolarità, cioè, la densità e la temperatura tendevano all’infinito, oppure l’universo iniziò ad espandersi da uno stato stazionario? E, in questa seconda ipotesi, qual era questo stato stazionario? La questione della nascita degli elementi chimici non era considerata. Per dirla alla Lemaître, l’universo iniziò “da una qualche materia primordiale”, le cui proprietà non erano ben definite.

La scena si affolla (ma chi ancora pensa che il cammino della scienza sia una passeggiata solitaria e non uno sforzo collettivo?). Devo infatti introdurre un altro importante personaggio per illustrare il dibattito cosmologico di quegli anni cruciali: l’astronomo americano Harlow Shapley (1885–1972), uno dei protagonisti del Grande Dibattito con Heber Curtis del 1920 sulle dimensioni dell’universo.

Assieme alla moglie Martha Betz, anch'essa un'astronoma, Shapley nel 1918 analizzò le differenze tra le proprietà degli ammassi globulari e delle galassie spiraliformi, quest’ultime ancora considerate nebulose interne alla nostra galassia. La coppia scoprì che le velocità radiali degli ammassi globulari sono in gran parte negative, fatto che portò i due astronomi all’ipotesi che essi siano oggetti extra-galattici attratti dal nostro sistema galattico. Le nebulae a spirale, invece, apparentemente indifferenti all’attrazione gravitazionale del sistema galattico, si stanno allontanando dal sole e dal piano di rotazione della nostra galassia, fatto notevole fino ad oggi poco evidenziato: sebbene il numero delle velocità delle nebulose a spirale fosse limitato, 25 di esse tranne 3 avevano velocità positive (cioè si stanno allontanando da noi) con valori di 150 Km/s e maggiori. Queste velocità erano molto più alte che le velocità (negative) degli ammassi globulari. Gli Shapley sottolinearono più volte nell’articolo che la categoria degli ammassi globulari sembra avvicinarsi rapidamente al sistema galattico, mentre quella delle nebulose a spirale si sta allontanando ad alta velocità. Essi spiegarono le velocità di allontanamento delle spirali come la conseguenza di forze di repulsione che agiscono tra di loro e la Via Lattea.

Un’altra conclusione dei coniugi astronomi fu che la velocità delle nebulose a spirale è in relazione in qualche modo con la loro luminosità apparente, indicando un legame della velocità con la distanza o, eventualmente, la massa. Ciò naturalmente portò i due autori all’idea che tra le spirali agisce una forza repulsiva, in quanto essi scrissero che “L’ipotesi richiede che la gravitazione sia la forza dominante sulle stelle e sugli ammassi stellari e che una forza repulsiva (…) predomini nel comportamento osservato delle nebulose a spirale.” È interessante notare che l’articolo di de Sitter del 1917 fu pubblicato proprio un anno prima che gli Shapley completassero il loro lavoro, ma, come nel caso di Lemaître dieci anni più tardi, ciò avvenne su una rivista poco diffusa e difficilmente accessibile agli astronomi, per cui essi non erano a conoscenza.

Quando si incominciò a conoscere l’articolo di de Sitter, si fecero diversi tentativi di verificare il suo modello. Uno dei primi tentativi di scoprire la relazione tra lo spostamento spettrale (cioè la velocità) e la distanza fu intrapreso dal fisico americano di origine polacca Ludwik Silberstein (1872-1948). Silberstein, che fece una ventennale carriera universitaria anche in Italia tra Bologna e Roma, calcolò le velocità relative (negative e positive) di molti ammassi stellari e nebulose spirali, per derivare una formula che fosse in grado di spiegare lo spostamento delle linee spettrali della luce emessa dalle stelle. I risultati confermarono che molti degli oggetti studiati, in particolare le Nubi di Magellano, si trovano a distanze incompatibili con le dimensioni calcolate allora per la nostra galassia. Silberstein inviò il suo articolo per la pubblicazione il 18 gennaio 1924. Fu prima della scoperta da parte di Hubble che le nebulae sono extragalattiche. Ciò nonostante, sembra che egli inconsapevole del dibattito cosmologico in corso, perché le sue conclusioni, per quanto imprecise riguardo ai valori calcolati, avrebbero sicuramente portato agli stessi risultati che Hubble ottenne poco dopo, particolarmente che le galassie a spirale sono oggetti extra-galattici. Silberstein, personaggio particolare e un po’ troppo convinto delle proprie opinioni, è noto anche per aver cercato inutilmente di accreditarsi presso Eddington come “uno dei tre esperti mondiali di relatività” e per aver iniziato nel 1936 una polemica sulla stampa contro Einstein che non aveva tenuto conto di presunte “falle” nella teoria della relatività che egli sosteneva di aver scoperto. Diciamo che nella nostra rappresentazione Silberstein interpreterebbe il vecchio brontolone e un po’ trombone.

I risultati di Silberstein furono criticati sempre nel 1924 dallo svedese Knut Lundmark (1889-1958). Lundmark è invece senz’altro una bellissima figura che, negli anni in cui si svolse il dibattito di cui sto dando relazione, poteva senz’altro essere l’attor giovane della compagnia. Si era laureato a Uppsala nel 1920 con una tesi dal titolo “Le relazioni degli ammassi globulari e delle nebulose spirali con il sistema stellare” e fu uno dei pionieri della moderna cosmologia. Fu uno dei primi a ipotizzare che le galassie non appartengono alla Via Lattea, ma sono remoti oggetti esterni ad essa. Nel 1919 aveva misurato la distanza di M31, la Galassia di Andromeda, basandosi sulla magnitudine delle novae là presenti e paragonandola a quella di altre novae più vicine, di cui era nota la distanza. Ottenne un valore di 650 mila anni luce, circa un quarto della distanza reale accertata in seguito, sufficiente tuttavia a fargli sospettare che l’oggetto fosse ampiamente esterno ai confini della Via Lattea. A partire dagli ’30, Lundmark fu un appassionato divulgatore di astronomia e di scienza popolare, sia attraverso numerosi libri, sia attraverso la partecipazione ai programmi della radio svedese: generazioni di connazionali sarebbero rimasti affascinati dalla sua competenza, dalla sua passione e dalla sua abilità comunicativa.

Nel 1924 Lundmark era però ancora troppo attaccato ai dogmi e criticò Silberstein perché riteneva i suoi valori per la velocità di allontanamento troppo elevati. Egli si chiese anche se gli spostamenti delle righe spettrali non potessero essere dovuti a cause diverse dalla velocità. Infine, i risultati di Silberstein contemplavano valori negativi per la velocità, in contrasto secondo lo svedese con la teoria di Weyl e Eddington. Ciò che né lui né il connazionale Strömberg, che si aggiunse nel 1925 ai critici di Silberstein, riuscivano ancora a capire è che valori negativi della velocità sono compatibili con le equazioni di Einstein e de Sitter, ma non a classi diverse di oggetti nello stesso universo. In effetti, o l’universo si espande, e la velocità è positiva per tutti gli oggetti distanti, oppure l’universo si contrae, e il segno della velocità diventa allora dovunque negativo.


Gran finale, con ingresso del protagonista e voce fuori campo.

L’espansione dell’intero universo, accennata, ipotizzata, intuita da gran parte degli studiosi fin qui entrati in scena, divenne un fatto di pubblico dominio e interesse solo quando Hubble costruì il diagramma in cui lo spostamento delle righe spettrali delle galassie (che egli interpretò come una velocità) era funzione della loro distanza misurata attraverso l’assunzione delle cosiddette candele standard, oggetti celesti di cui si pensa di conoscere con certezza la luminosità. Confrontando la luminosità propria dell'oggetto con quella apparente, se ne ricava la distanza. La novità introdotta nella misura delle distanze da Hubble è fondamentale: egli utilizzò tale metodo per stelle particolari (Cefeidi, novae e stelle blu) osservate all’interno delle nebulose, mentre i suoi predecessori consideravano la luminosità dell’intera nebulosa. Se avesse utilizzato lo stesso metodo, il suo diagramma avrebbe mostrato solo una serie di punti sparsi, che non avrebbero consentito di cogliere la relazione tra velocità e distanza. Questo fatto dimostra, sostiene il gruppo di Giori Shaviv, perché egli riuscì dove gli altri fallirono.

Il fatto che le nebulose mostravano uno spostamento verso il rosso era già noto agli astronomi e matematici americani William Wallace Campbell già nel 1911 e Vesto Slipher nel 1915, prima che fosse nota lo localizzazione extragalattica delle nebulose. Entrambi avevano messo in relazione la velocità di allontanamento dei corpi celesti con il loro grado di evoluzione. Hubble scoprì invece che esso è da mettere in relazione con la loro distanza relativa, per questo, secondo Shaviv, non li citò nella biografia del suo articolo.

Mi avvicino alla tesi principale di Shaviv e pertanto farò largo uso delle citazioni virgolettate. “L’articolo di Lemaître del 1927 fu pubblicato su una rivista scientifica oscura e in gran parte inaccessibile. Di conseguenza non suscitò molto interesse, se anche l’attento Hubble non lo citò e risalì a quello di de Sitter, vecchio di dieci anni, mentre l’articolo di Lemaître era assai più importante e recente. Solo quando Eddington se ne accorse, la sua importanza fu riconosciuta. L’articolo di Eddington è in effetti una recensione di quello di Lemaître”. Persone diverse hanno scelto ricercatori differenti come profeti dell’espansione dell’universo. Gran parte degli scienziati fin qui citati possono essere considerati come gli anticipatori della teoria, e altri potrebbero essere menzionati. Il merito di Hubble fu che i suoi risultati furono più accurati e tenevano in maggior considerazione i dati derivati dall’osservazione.

“Lemaître pubblicò il suo lavoro sugli Annales de la Société Scientifique de Bruxelles. Quante biblioteche astrofisiche e astronomiche conservano oggi questa pubblicazione? Dimenticata. Quanti astronomi cercano articoli importanti in questa e in pubblicazioni simili? Che cosa volete da Hubble, che era in California, quando Eddington, che si trovava sull’altra sponda della Manica, affermò che l’articolo di Lemaître gli era sfuggito?”

Nel 1930 de Sitter pubblicò negli Stati Uniti un dibattito sull’espansione dell’universo. Egli era in Olanda, paese che notoriamente confina con il Belgio, eppure sostenne che l’articolo dell’astrofisico belga gli era stato segnalato da Eddington solo qualche settimana prima. Sostiene Shaviv: “Se de Sitter, che si trovava a Leida, non sapeva dell’articolo di Lemaître, che cosa volete da Hubble che si trovava in California?” La verità è che “Pochi scienziati americani leggevano e oggi leggono pubblicazioni europee” (…) “Eddington pubblicò la sua famosa teoria sulla struttura delle stelle su una rivista europea, tuttavia trovò appropriato ripetere la pubblicazione su una americana”. E Lemaître non lamentò mai di aver subito un torto da Hubble.


Fin qui l’articolo di Giori Shaviv e qui dovrebbe terminare l’opera del vostro umile cronista. Ma, pur fedele all’assunto di tener separati i fatti dalle opinioni, anch’io mi permetto di sollevare qualche piccola obiezione, chiedendo allo studioso israeliano e al paziente pubblico che ci ha seguito fin qui: lasciamo pur stare Hubble, che tuttavia non si ricordò di Lemaître anche quando pubblicò nel 1936 The Realm of Nebulae, il suo testo definitivo sull’argomento, ma Eddington, che era stato insegnante di Lemaître, perché si accorse in ritardo dell’importanza del suo articolo? E perché un’opera che egli riconobbe come fondamentale e che, come sostiene una nota all’articolo dello stesso Shaviv, avvenne “under Eddington's recommendation” fu tradotta con inspiegabili tagli redazionali?

Fonte principale:
Giora Shaviv (2011). Did Edwin Hubble plagiarize? ArXiv DOI: arXiv:1107.0442v1 [physics.hist-ph] 3 Jul 2011

giovedì 7 luglio 2011

Il chimico folle e la decomposizione dell’acqua

Su William Ford Stevenson la rete è avara di informazioni. Sappiamo che nacque nel 1811 e morì il 3 febbraio 1852. Fu Fellow della Royal Society (ma il sito della veneranda istituzione si limita a fornire le date di nascita e di morte) e si occupò di chimica, elettricità e magnetismo. Fu autore di un pamphlet, di cui è ancora facile trovare qualche esemplare dagli antiquari e che è stato ristampato più volte, anche recentemente, che consegna ai posteri, in un testo di una cinquantina di pagine, uno degli esempi più eclatanti del pensiero di retroguardia che si oppose con forza ai progressi della chimica moderna. Il volumetto Most Important Errors in Chemistry, Electricity, and Magnetism, Pointed Out and Refuted: And the Phenomena of Electricity, and the Polarity of the Magnetic Needle Accounted for and Explained, by a Fellow of the Royal Society, che uscì nel 1846 a Londra presso James Ridgway, tipografo ed editore a Piccadilly, fa appello a tutto lo scetticismo possibile sull’oggettività degli esperimenti intrapresi dai chimici dell’epoca (in particolare Humphry Davy, con il quale sembra quasi trasparire una questione personale), con un non trascurabile ricorso all’autorità delle Scritture. L’autore si propone di confutare quelli che ritiene i più comuni e perniciosi errori che affliggono la nuova chimica, e cioè ritenere che l’acqua possa essere decomposta, che l’idrogeno sia un elemento chimico e che esistono due stati di elettricità e magnetismo, argomentando sulla “vera modalità di azione” di questi “fluidi”.

Un’occhiata alle due pagine finali di Addenda che chiudono il testo induce a classificare lo Stevenson come un folle letterario. I foux litteraires, secondo la definizione data da Raymond Queneau, sono quelle persone che pubblicano, di solito a loro spese, vaneggiamenti scientifici, storici o religiosi che non rimandano a dottrine anteriori e che non hanno eco alcuna nella società in cui vivono. Tecnicamente immuni da patologie certificate, i folli letterari non hanno né maestri né discepoli. Che, tecnicamente, Stevenson sia un folle letterario è egli stesso a darcene ampia prova:

«La Teoria dei Fenomeni dei Fluidi Elettrici e Magnetici, e le loro modalità d’azione, si suggerì da sola nella mente dell’Autore durante una malattia a Aix-les-bains in Savoia e fu poi da lui comunicata alla Royal Society in un articolo trasmesso al suo eccellente Segretario, Dr. Roget, nell’agosto 1834 e in seguito al Dr. Faraday nel gennaio 1838. L’argomento fu riferito dalla Società a un comitato, ma non si fece alcuna relazione.

Nel dicembre 1834 la stessa Teoria fu comunicata dall’autore all’Istituto Francese in una memoria presentata dal Signor Arago, quando l’argomento fu trasmesso ai Signori Ampére e Bequerel, ma essi non fecero alcuna relazione.

(…) All’inizio del 1844, dopo aver visto nel Philosophical Magazine di Sir David Brewster del giugno 1843 la notizia dell’esperimento di Faraday, l’Autore indirizzò un’altra memoria alla Royal Society, spiegando il fenomeno e mostrando come esso derivasse e fosse in accordo con la sua Teoria. La stessa comunicazione fu inviata nel marzo 1844 allo stesso Philosophical Magazine, ma non fu mai pubblicata, almeno a quanto consta all’Autore.

La Teoria della Non-Decomposizione dell’Acqua, e che l’Idrogeno sia composto di Elettricità e Acqua, fu comunicata alla Royal Society in una memoria presentata dal continente dal Dr. Roget nell’aprile 1840, e che fu riferita dal Consiglio al Comitato di Chimica che non vi fece tuttavia alcuna relazione. Un articolo simile fu inviato al Marchese di Northampton nel maggio 1840.

Nel dicembre 1841, l’autore indirizzò un’altra memoria sullo stesso soggetto alla Royal Society, accompagnata dalle citazioni di Cavendish, Priestley e Watt, sul fatto che l’Idrogeno è un corpo composto, che fu anch’essa riferita al Comitato di Chimica, ma senza alcun risultato».

William Ford Stevenson è insistente, non si perde d’animo e non ha alcun timore di scomodare alcuni tra i più importanti scienziati del tempo (Arago, Faraday, Ampére, Bequerel) convinto com’è della sua teoria, rafforzato nelle sue convinzioni dal fatto che essa è il frutto di una illuminazione, in quanto “suggested itself to his mind”. Egli è inoltre un loro pari, essendo, come si è visto, anch’egli membro della Royal Society, onore riservato a pochi. E qui chi scrive queste note si chiede come ciò possa essere accaduto: errore, raccomandazione, dolo? La stima che merita la Royal Society induce a pensare che Stevenson, forse un promettente giovane scienziato, a un certo punto della sua vita possa essere stato vittima di un episodio traumatico o di una grave malattia (“an illness”) che ne hanno minato l’equilibrio.

La più importante “vittima” degli strali di Ford Stevenson è il grande chimico, poeta ed inventore Humphry Davy (1178-1829), considerato nel Regno Unito come un eroe nazionale. Egli aveva scoperto e isolato i metalli alcalini, fatto esperimenti di elettrochimica, isolato alcuni gas, scoperto, smentendo Lavoisier, che non tutti gli acidi contengono ossigeno, ma sempre l’idrogeno, che è rimpiazzabile interamente o parzialmente da un metallo per dare origine a un sale. Pioniere dell’elettrolisi, aveva isolato il cloro dall’acido muriatico e infine inventato la lampada di sicurezza per i minatori. In Elements of Chemical Philosophy (1811) aveva affrontato la questione allora spinosissima della nomenclatura di elementi e composti, accogliendo le idee di Lavoisier e dei francesi:

«Molti filosofi, in particolare l’illustre Bergman, avvertirono che era necessario un miglioramento della nomenclatura chimica e, nel 1787, i Signori Lavoisier, Morveau, Berthollet e Fourcroy presentarono al mondo un piano per un quasi completo cambiamento nella denominazione delle sostanze chimiche, basato sull’idea di chiamare i corpi semplici con nomi che richiamassero le loro qualità più evidenti; e di denominare i corpi composti dagli elementi che li componevano».

Davy, nell’introduzione al volume, dava conto anche dei primi esperimenti di elettrochimica:

«Quando si stabilì la teoria antiflogistica, l’elettricità aveva poca o nessuna relazione con la chimica. I grandi risultati di Franklin, riguardo alla causa dei fulmini, avevano portato molti filosofi a ipotizzare che certi cambiamenti chimici nell’atmosfera potevano essere messi in relazione con fenomeni elettrici; - e scariche elettriche erano state usate da Cavendish, Priestley e Vanmarum per decomporre e incendiare corpi; ma fu solo con l’era della meravigliosa scoperta di Volta, nel 1800, di un nuovo apparato elettrico, che ogni grande progresso nell’investigazione chimica fu realizzato tramite combinazioni elettriche».

Contro questo monumento nazionale, senza alcun preliminare, così parte l’incipit del primo capitolo del trattatello di Ford Stevenson:

«Nonostante l’elogio fatto a Sir Humphry Davy dal suo ammirevole biografo, il Dr. Paris, non ci sembra, con esclusione [dell’invenzione] della lampada di sicurezza, di essere molto indebitati con i suoi lavori come è generalmente considerato, né che la chimica sia stata da lui lasciata in uno stato soddisfacente. Si dice che egli abbia rovesciato la teoria della combustione di Lavoisier, e che abbia provato che l’ossigeno non è il principio dell’acidità; ma che cosa ha messo al loro posto? Invece di luce e calore come proprietà dell’ossigeno, che questa sostanza (secondo il chimico francese) condivide o sviluppa nel momento della sua unione con un corpo combustibile, Davy ci dice che la luce e il calore sono meri effetti del movimento o, come lui la chiama, di intensa azione chimica e, con riferimento alla causa dell’acidità, la lascia totalmente inspiegata. Si dice anche che egli abbia arricchito la scienza con alcuni metalli evanescenti che si pensa siano le basi delle terre alcaline, ma che con ogni probabilità si riveleranno solamente come corpi composti, come ha sostenuto il signor Curadon in una memoria letta all’Istituto Francese.

(…) Ora, di che cosa sono fatte queste sostanze elementari, e che cosa conoscono i chimici dei corpi elementari? Se siamo portati a pensare che è una delle eccellenze della Saggezza Divina giungere ai risultati più incredibili con il più semplice dei mezzi, ne seguirebbe naturalmente che per fare qualsiasi progresso degno di nota in chimica si dovrebbe adottare un simile metodo. Invece, ora siamo fino a cinquanta corpi elementari; così, senza giudizio, abbiamo moltiplicato i quattro elementi semplici giunti a noi dall’antichità.

(…) Prima di esaminare gli esperimenti relativi alla “decomposizione dell’acqua”, consideriamo, per qualche istante, su quale autorità, indipendentemente dalla chimica, questo fluido può essere considerato un corpo elementare: non voglio minimamente dire che l’autorità scritturale, o qualsiasi altra autorità, porti a una conclusione in contrasto con l’evidenza diretta, ma solo che se un forte dubbio debba essere elevato sul soggetto, si consenta al peso leggero del Vecchio Testamento, delle parole degli antichi filosofi e della dottrina delle probabilità di essere posto sulla bilancia della questione e indurre i chimici ad adottare quell’idea sul soggetto fino a che prova contraria non sia mostrata da esperimenti inconcepibili (…)


Troviamo allora, nel primo capitolo del Genesi, che “Dio creò il cielo e la terra” e nel seguito che “lo spirito di Dio aleggiò sopra la superficie delle acque”. E poi, che “Dio disse, siano le Acque sotto il cielo riunite in un unico posto, e che appaia la parte asciutta, E dio chiamò terra la parte asciutta”. Da questi passaggi sembrerebbe (…) che l’acqua deve essere creata in precedenza, e non al tempo in cui si parla di cielo e di terra. Pare anche che all’inizio le acque coprissero interamente la terra”. Così troviamo in un altro passaggio (…) queste parole: “E Dio disse: Che ci sia un Firmamento tra le acque e che divida le acque dalle acque”. Ora, è una circostanza curiosa che la parola ebraica che è tradotta con “Firmamento” significhi “Espansione”, da cui si deve concludere che la terra era un nucleo in fusione, circondato dal fluido acquatico dal quale si liberò parzialmente per espansione, facendo in modo che apparissero le terre emerse. (…)

(…) Consideriamo infine questa questione sul terreno della probabilità. Ho già osservato che la più alta concezione che possiamo avere del Potere Divino è quella che esso possa produrre i risultati più splendidi a partire dai mezzi più semplici; e ogni qual volta siamo in grado di comprendere uno qualsiasi dei processi naturali, ci troviamo invariabilmente in questo caso. È probabile, allora, che l’acqua del nostro globo, ora tre volte più estesa che quella della terra, e che, al momento della creazione, doveva essere ancora più vasta, volatilizzò a formare l’atmosfera. È allora probabile, mi chiedo, che un corpo così importante per l’esistenza e l’agio degli abitanti della terra, e così abbondantemente elargitoci, possa essere un composto di sostanze gassose, le cui quantità necessarie per formare un tale corpo eccedono di molto l’estensione dell’immaginazione umana, per quanto essa sia elastica abbastanza da adottare i calcoli del Signor Arago, che la velocità della luce è 77 mila leghe al secondo di tempo? »

Qui i vaneggiamenti scritturali e paraprobabilistici dell’autore, che più volte adotta il rasoio di Occam per contrastare l’ipotesi che l’acqua sia un composto, sfiorano un altro vero e grande scienziato della prima metà dell’Ottocento: il francese François Arago (1786–1853), matematico, fisico, astronomo, divulgatore scientifico e uomo politico, che ideò l’esperimento per misurare sperimentalmente la velocità della luce realizzato da Fizeau e Foucault nel 1850, quando egli era già divenuto cieco.

Finalmente (ma con i folli, soprattutto con i verbosi folli letterari, bisogna aver pazienza) sembra che William Ford Stevenson si decida ad entrare nel merito della questione sulla natura dell’acqua, o almeno che ci provi. La sua prima obiezione è infatti di natura processuale, quasi a invocare una perizia di parte:

«Voglio solo premettere che l’investigazione di un importante processo, e la ripetizione di tale processo da parte di un avvocato della dottrina, è un affare molto differente dallo scrutinio e la ripetizione dello stesso esperimento da parte di un oppositore, e ciò anche se non esiste il più remoto dubbio sulla buona fede dell’operatore. Non posso sottolineare questa osservazione meglio che citando le idee di Sir Humphry Davy su questo punto, nel quinto dialogo del suo Last Days of a Philosopher. “Ripetendo spesso – egli dice – un processo o un’osservazione, gli errori connessi con operazioni approssimative od osservazioni imperfette sono eliminati, e, purché l’assistente non abbia proprie idee preconcette o sia ignorante dello scopo del suo superiore nel fare l’esperimento, la sua mera e semplice relazione dei fatti sarà spesso la miglior base per un opinione.

(…) Credo che queste osservazioni siano necessarie, in quanto le riflessioni di Davy si applicano fortemente al processo di decomposizione dell’acqua, sul quale egli non poteva assolutamente, perciò, che implicitamente contare. Tanto più che esiste una oggettiva difficoltà nel condurre gli esperimenti, come prestò si vedrà.

L’esperimento consiste nel mettere acqua pura in un recipiente di vetro ermeticamente chiuso, e con l’introduzione del fluido galvanico attraverso l’applicazione della pila di Volta, decomporre l’acqua in questione, in modo tale che alla fine del processo non si trovi più acqua nel recipiente, ma, al suo posto, i gas idrogeno e ossigeno, nella proporzione di due parti del primo per una del secondo, secondo Davy; ma, secondo Cavendish, solo una parte di idrogeno e cinque o sei di ossigeno.

Si dice che ciò sia stato realizzato prima da Cavendish, e in seguito da Lavoisier, Wollaston, Davy, ecc., e tutti, si osservi, glorificati per la scoperta; e, in verità, gli ultimi due, in comune con molti altri celebrati personaggi, considerano che Cavendish abbia aggiunto raggi addizionali allo splendore che Newton aveva già sparso su questo nostro paese molto fortunato».

In realtà, ma è difficile che Ford Williamson potesse saperlo, la prima elettrolisi dell’acqua non è merito di alcuno degli scienziati citati. Essa fu realizzata, ancor prima dell’invenzione della pila, dagli olandesi Deiman e van Troostwijk, i quali nel 1789 utilizzarono una macchina elettrostatica per produrre elettricità che fu inviata a degli elettrodi d’oro posti in una bottiglia di Leida contenente acqua. Nell’anno 1800, dopo l’invenzione di Volta, la prima elettrolisi fu realizzata qualche settimana più tardi da William Nicholson e Anthony Carlisle. Henry Cavendish (1731–1810) invece aveva per primo isolato l’idrogeno e ne aveva riconosciuto la natura di elemento nel 1766. Ma continuiamo a seguire il nostro autore:

«Per rendere decisivo il processo in questione sono necessarie due cose, cioè che al suo inizio l’acqua deve essere completamente priva di ossigeno [disciolto] e che, durante l’operazione, l’ossigeno non entri nel recipiente. Ora, io ritengo che apparirà chiaro come nessuno degli esperimenti intrapresi sull’acqua sia esente da tali obiezioni; in questo caso essi sono privi di valore come evidenze che una qualsiasi decomposizione abbia avuto luogo.

Per mostrare l’estrema difficoltà, anzi, la quasi impossibilità di ottenere acqua pura, e che, qualora sia parzialmente ottenuta, di impedire l’ingresso di ossigeno (entrando esso o con il fluido galvanico o in qualche maniera ancora sconosciuta), citerò il seguente esperimento, preso dalla Bakerian Lecture tenuta da Davy il 26 novembre 1806.

Il Signor Sylvester ha asserito che, se due porzioni di acqua erano elettrizzate, lontane dal contatto di sostanze contenenti materia alcalina e acida, nonostante ciò si producevano acidi e alcali. “Alcune persone – dice il Dr. Paris – pensarono che i sali contenuti nei fluidi dei cavi della pila voltaica potevano, attraverso qualche via inaspettata, trovare la strada per entrare nell’acqua sotto esame. Altri, che essi erano generati dall’unione del fluido elettrico con l’acqua, o con uno o entrambi i suoi elementi”. L’ansioso desiderio di Davy era, tuttavia, di ripetere e smentire i risultati dell’esperimento di Sylvester. A questo scopo, e per evitare qualsiasi impurità nell’acqua, Davy utilizzò [come elettrodi] due piccole tazze d’agata che erano state bollite per alcune ore in acqua distillata e costruì un pezzo di amianto bianchissimo e trasparente (una sostanza proposta per primo dal Dr. Wollaston), purificato nello stesso modo, per collegare assieme i recipienti.

Così si osserva, dice Davy, che ogni apparente sorgente d’errore era stata rimossa; ma, tuttavia, dopo che la più pura acqua distillata era stata esposta nelle coppe d’agata alla corrente voltaica per 48 ore, l’acqua nella coppa positiva dava indicazioni di acido muriatico e quella nella coppa negativa di soda. Allora, o l’ossigeno era già presente nell’acqua e formava l’acido, o doveva essere risultato dalla mistura acida nel cavo, o da materia ossidata trasmessa dai poli della batteria voltaica. L’esperimento fu pertanto ripetuto da Davy una seconda, una terza e una quarta volta, avendo accuratamente posto le coppe d’agata in recipienti di vetro, fuori dal contatto., dice Davy, con qualsiasi aria circolante, e tutti materiali erano stati ripetutamente lavati con acqua distillata, e nessuna loro parte era stata in contatto con il fluido tramite le dita, ma si ottenne sempre lo stesso risultato».

Davy, nel racconto di William Ford Stevenson, riprovò sostituendo le coppe d’agata con conetti d’oro zecchino, ottenendo una presenza ancor maggiore di acido al polo positivo, mentre gli alcali al polo negativo rimanevano stabili. L’acido, secondo Davy, era acido nitrico. Davy era ancora insoddisfatto.

«Ora, si noti in modo particolare, avete qui un chimico che usa tutte le sue energie per rovesciare una teoria che egli pensa possa opporsi alla sua, mentre, in tutti gli esperimenti di decomposizione dell’acqua, avete tutti i chimici che si adoperano per confermare una teoria con la quale essi ritengono di acquisire due elementi addizionali per arricchire i magazzini della scienza chimica. Ciò dimostra con forza l’acredine delle osservazioni di Davy, sulla necessità che l’operatore non abbia idee preconcette sul risultato, che sia esente da qualsiasi pregiudizio o desiderio riguardo al soggetto».

Dopo altri esperimenti ancora più rigorosi, sempre con lo stesso risultato, Davy arriva alla conclusione che l’ossigeno e l’idrogeno nascenti dell’acqua possano combinarsi con l’aria comune, che è costantemente dissolta in quel fluido. La conclusione di Ford Stevenson è che, al contrario, in nessuno degli esperimenti intrapresi da Cavendish in poi l’acqua potesse essere pura e che, in realtà, mai nessuno ha ottenuto la decomposizione dell’acqua.

In conclusione della parte dedicata alla natura dell’acqua, Ford Stevenson affonda il dito nella piaga aperta e sanguinante di Davy utilizzando la sua stessa riflessione che il processo di dissoluzione dell’acqua non può avvenire senza l’applicazione di elettricità e che esso è comunque lungo e difficile. In realtà Davy ha ragione, perché l’elettrolisi dell’acqua in condizioni standard è una reazione sfavorita in termini termodinamici: i cationi H3O+ si accumulano catodo e gli anioni OH- si accumulano all'anodo: l'acqua vicino all'anodo è acida mentre l'acqua vicino al catodo è basica. Queste cariche elettriche si repellono ed impediscono il passaggio di corrente nel circuito finché non sono diffuse lontano dall'elettrodo, il che è un processo lento. Questa è la ragione per cui l'acqua pura è un cattivo conduttore di elettricità e l'elettrolisi dell'acqua pura è un processo molto lento, quasi "impossibile" senza l'aggiunta di un elettrolita nella soluzione.

«È evidente che Davy, nell’ardore della sua ricerca, e l’esultanza di una vittoria immaginaria (perché nessuna persona imparziale può ritenere che essa sia stata conseguita), mai una volta ha riflettuto che stava fornendo egli stesso la testimonianza della fallacia degli esperimenti nei quali si è pensato che l’acqua fosse decomposta. Egli parla infatti , come si è visto, che ci dovrebbero essere ossigeno e idrogeno nascenti, dimenticando totalmente che, secondo Cavendish, Lavoisier, Wollaston, ed egli stesso, tutta l’acqua in ciascuno di questi esperimenti avrebbe dovuto trasfomarsi in aria sottile». (…)

E perché, chiede, c’è disaccordo tra i chimici sulle proporzioni reciproche dell’ossigeno e dell’idrogeno prodotti. Uno a due? Uno a sei? Uno a otto?

«E’ allora eccessivo affermare che, quando un processo chimico è lasciato in uno stato come questo, si deve dargli scarsissimo credito?»