martedì 31 luglio 2012

Centenario dell’austronautica


Alla presenza dell’Arciduca Francesco Ferdinando, il 31 luglio 1912, esattamente cento anni fa, dalla base rutena di Sanok veniva lanciato con un gigantesco cannone appositamente costruito il primo uomo nello spazio, il tenente Josef Fazekas. Iniziava l’era dell’austronautica. 

Le cronache del tempo riportano che le operazioni di sparo furono ostacolate da un forte temporale, ma la perizia balistica degli addetti al pezzo fece in modo che tutto andasse per il meglio. Il tenente Fazekas, l’eroico dragone di Debrecen, raggiunse una quota di 20 km e poi iniziò una rapidissima discesa direttamente sulla base. Un sistema di colossali tappeti elastici impedì che l’austronauta si sfracellasse al suolo, ma i continui rimbalzi fecero sì che poté toccare terra solo dopo 36 ore, frastornato e felice. Raccontò che la visione della Terra da quell’altezza era indimenticabile e, visto che c’era, segnalò allo Stato Maggiore un movimento sospetto di truppe russe al di là del confine. L’Arciduca lo nominò colonnello direttamente sul campo, prima di allontanarsi con l’ennesima contessina disponibile. 

Fazekas fu in seguito ricevuto a Corte dall'Imperatore Francesco Giuseppe, che gli assegnò un vitalizio e la contea di Svitto, dimenticando, forse per l’età avanzata, che gli Asburgo non possedevano più quei territori alpini dai tempi di Guglielmo Tell. 

Un secondo lancio era previsto per l’agosto 1914, ma il destino volle diversamente, per l’Arciduca, per l’Impero e per l’Europa intera. Il “Colonnello Volante”, il ”Nuovo Icaro dei Carpazi” sarebbe morto di spagnola nel 1918, all'età di soli 35 anni.


Con l’Austria–Ungheria, nel novembre 1918, scomparve anche l’effimera gloria di Fazekas e dell’appena nata scienza austronautica.

giovedì 26 luglio 2012

Dimmi di Old King Cole (e di Kirkman)

Dimmi di un vecchio re britanno, alleato dei Romani, che i gallesi chiamano Coel Hen (Coel il Vecchio), forse vissuto ai tempi di Diocleziano, quindi prima ancora dell’Artù storico. 

Dimmi della leggenda che vuole il vecchio Coel padre di Elena, che sposò Costanzo Cloro e nel 272 mise alla luce Costantino il Grande (anche per gli appellativi è questione di punti di vista). 

Dimmi della vecchia Nursery Rhyme intitolata Old King Cole, che narra di un re godereccio che chiedeva la sua pipa, o il suo flauto (pipe), la sua tazza (bowl) e i suoi tre suonatori di violino (fiddlers three). 

Dimmi della prima versione a stampa, pubblicata da William King nelle Useful Transactions in Philosophy nel 1708–9: 

Good King Cole, 
And he call'd for his Bowle, 
And he call'd for Fidler's three; 
And there was Fiddle, Fiddle, 
And twice Fiddle, Fiddle, 
For 'twas my Lady's Birth-day, 
Therefore we keep Holy-day 
And come to be merry. 

Dimmi della versione più recente e popolare, che fa così: 

Old King Cole was a merry old soul 
And a merry old soul was he; 
He called for his pipe, and he called for his bowl 
And he called for his fiddlers three. 
Every fiddler he had a fiddle, 
And a very fine fiddle had he; 
Oh there's none so rare, as can compare 
With King Cole and his fiddlers three.

 

Dimmi di un meraviglioso cantante e pianista afroamericano che si chiamava Nathaniel Coles, ma fu presto chiamato Nat King Cole per la sua bravura. 

Dimmi di un gruppo musicale che si chiamava Genesis, che pubblicò nel 1971 un fantastico album intitolato Nursery Cryme, che citò Old King Cole in una sua canzone, The Musical Box

Play me Old King Cole 
That I may join with you, 
All your hearts now seem so far from me 
It hardly seems to matter now. (…)

 

Dimmi ancora, dimmi di un altro grande gruppo di quei fantastici anni ’70, i Queen, che parodiarono il povero Old King Cole e lo fecero diventare il Great King Rat di una loro immatura canzone (e titolo dell’album omonimo del 1973): 

Great King Rat was a dirty old man 
And a dirty old man was he 
Now what did I tell you 
Would you like to see?

 

Dimmi, poi, dimmi di Thomas Penyngton Kirkman (1806-1895), matematico inglese esperto in combinatoria e nella teoria dei gruppi, Kirkman di nome e di fatto, dato che era un pastore anglicano. Dimmi la poesia che pubblicò intorno al 1862 sull'Educational Times, un mensile londinese dedicato ai giochi e ai problemi matematici. Dimmi dei versi all'antica di The Revenge of Old King Cole che introducevano un problema combinatorio: 

"Full oft ye have had your fiddler's fling, 
For your own fun over the wine; 
And now"quoth Cole, the merry old king, 
"Ye shall have it again for mine. 
My realm prepares for a week of joy 
At the coming of age of a princely boy - 
Of the grand six days procession in square, 
In all your splendour dressed, 
Filling the city with music rare 
From fiddlers five abreast," (...) 

Dimmi infine del problema nascosto nei versi, delle 25 persone in marcia sistemate in cinque file il lunedì. Il martedì la seconda colonna si sposta di un posto verso l’alto, la terza colonna di due posti, la quarta di tre posti e la quinta di quattro posti. La stessa regola si applica per i giorni successivi, fino al venerdì: in nessuna delle disposizioni così costruite le stesse due persone si trovano nella stessa fila. La regola però non funziona più il sabato, così si è costretti a una disposizione speciale pur di fare in modo che due persone condividano la stessa fila in giorni sempre diversi. 

Dimmi adesso la soluzione: qual è la disposizione del sabato? 

Almeno questa, lettore, dimmela tu.

mercoledì 25 luglio 2012

Maiorana, il caso, la fisica e le scienze sociali


ResearchBlogging.orgEttore Majorana pubblicò in vita solo nove articoli scientifici, scritti quasi tutti nel biennio 1931-32, a parte il primo, pubblicato nel 1929 subito dopo la laurea in fisica assieme all’amico Giovanni Gentile jr (figlio del filosofo che era allora ministro fascista dell’educazione nazionale), e l’ultimo, Teoria simmetrica dell’elettrone e del positrone, uscito sul Nuovo Cimento nel 1937 ma pronto dal 1932-33. Lasciò anche molti lavori incompleti, alcuni dei quali sono andati perduti. Di tutta la produzione scientifica edita e inedita di Majorana (oltre che di molti aspetti della sua vita) si occupa un articolo di Erasmo Recami, il fisico che è senza dubbio il miglior biografo dello scienziato siciliano, al quale rimando chi volesse approfondire l’argomento.

Su segnalazione dell’amico Ignazio Licata, mi occupo qui di un decimo articolo, che Majorana scrisse per una rivista di sociologia e che poi decise di non pubblicare, anzi lo cestinò. Si tratta di un articolo divulgativo che Giovanni Gentile jr. ebbe dal fratello del fisico, che aveva trovato il manoscritto tra le carte lasciate dopo la scomparsa. Gentile lo presentò su Scientia, il glorioso quadrimestrale scientifico pubblicato tra il 1907 e il 1988, che l’Università di Bologna ha meritoriamente reso disponibile in formato digitale nella collezione AMS Historica. L’articolo, dal titolo Il valore delle Leggi Statistiche nella Fisica e nelle Scienze Sociali uscì sul fascicolo 36 della rivista, nel Febbraio-Marzo del 1942, alle pp.58-66. Dopo di allora non è stato più ripubblicato in lingua italiana fino agli inizi del 2006, quando Erasmo Recami ne rese note varie riduzioni su differenti quotidiani italiani e sulla rivista Fisica in Medicina, correggendo alcuni evidenti errori dell’articolo originale dovuti alla cattiva interpretazione della grafia di Majorana. Una duplice versione dell’articolo di Majorana, riassunta e completa, si può trovare anche nel paper di Recami nel catalogo ArXiv al quale faccio riferimento.

Non si conosce la data in cui fu scritto, ma il riferimento alla meccanica quantistica standard, senza alcun accenno alle critiche emerse negli anni ’30, fa pensare al 1930. L’articolo è una critica al determinismo, cioè la concezione per cui in natura nulla avviene a caso, ma tutto accade secondo ragione e necessità. Majorana sostiene invece che le recenti scoperte della meccanica quantistica autorizzano a “riconoscere (oltre ad una certa assenza di oggettività nella descrizione dei fenomeni) il carattere statistico anche delle leggi ultime dei processi elementari. Questa conclusione ha reso sostanziale l'analogia tra fisica e scienze sociali, tra le quali è risultata un'identità di valore e di metodo”. Per Majorana il caso ha rilevanza anche nell'analisi statistica dei fenomeni sociali, quando, prendendo in esame un evento, per l'elevata presenza di cause che l'hanno determinato, oppure nell'impossibilità di risalire alla conoscenza del primo elemento che l'ha causato, oppure ancora per la stessa natura indeterminata del fenomeno in esame, si osserva l'impossibilità di prevedere gli effetti di quel singolo fenomeno e si può solo dichiararne la probabilità statistica, riferita ad un insieme di fenomeni simili.

Questa critica al determinismo non deve però portare, per il grande fisico siciliano, a posizioni come quella di Georges Sorel (1847-1922), il quale, in De l’Utilité du Pragmatisme (1921), testo assai debitore alle idee di William James, sosteneva che, detto con le parole di Majorana, “l’effettiva eterogeneità dei fenomeni naturali esclude che se ne possa avere una conoscenza unitaria. Ogni principio scientifico sarebbe quindi applicabile a un determinato ambito di fenomeni, senza poter mai aspirare ad una validità universale”. Tale idea nega l’unità della scienza, ma “dobbiamo invece rilevare che il principio pragmatista, di giudicare le dottrine scientifiche in base alla loro reale utilità, non giustifica in alcun modo la pretesa di condannare l'ideale dell'unità della scienza, che si è rivelata più volte un efficace stimolo al progresso delle idee”. Sorel parlava di préjugés scientistes a proposito dell’illusione determinista degli scienziati e dei politici positivisti al volgere del secolo XIX, e, per quanto lo criticasse su più di un aspetto, Majorana ne condivideva almeno questa idea, anche a giudicare da come si sarebbe espresso nel 1934 in una lettera all’amico Giovannino Gentile: “presto sarà generalmente compreso che la scienza ha cessato di essere una giustificazione per il volgare materialismo”.

Trovare Sorel tra le letture di Majorana può sembrare strano, soprattutto vederlo citato in uno scritto destinato, almeno inizialmente, alla pubblicazione negli anni della definitiva affermazione del fascismo. Georges Sorel, teorico del sindacalismo rivoluzionario, predicatore della violenza come strumento della lotta di classe, sostenitore dell’autonomia operaia da partiti e organizzazioni e dell’azione rivoluzionaria diretta attraverso lo sciopero generale, era anche ferocemente anti-borghese e considerava il positivismo come una religione della scienza e del progresso, diretta eredità dell’illuminismo, l’ideologia borghese per eccellenza. Ad un primo sguardo, sarebbe un po’ come trovare citato il Toni Negri degli anni ’70 in uno scritto divulgativo di Carlo Rubbia. In realtà le idee di Sorel, assai più note in Italia di quanto lo fossero in patria, erano molto popolari negli anni antecedenti e successivi alla prima guerra mondiale, in quanto si inserivano in quella critica alla borghesia mediocre e inetta che accomunava l’estrema sinistra e l’estrema destra. Sorel fu citato da Gramsci, era in corrispondenza con Benedetto Croce, Vilfredo Pareto e Antonio Labriola, ispirò il pensiero sindacalista rivoluzionario in cui maturò inizialmente l’esperienza politica di Benito Mussolini. In quei decenni convulsi era un maître à penser, ma non può essere indicato come sostenitore di alcun movimento politico che venne in contatto con le sue idee. Nel suo articolo, Majorana non si occupa di questioni politiche, ma solo delle idee di Sorel come teorico del pragmatismo: il fatto che parli del pensatore francese è solo un indice della grande influenza culturale di quest’ultimo.

L’articolo di Majorana si apre con la considerazione che nei tempi moderni le leggi della meccanica sono state il riferimento fondamentale del pensiero scientifico. Si tratta di “così dette leggi esatte, consistenti in formule relativamente semplici che, escogitate originariamente in base a indicazioni frammentarie e approssimative dell'esperienza, si rivelano in seguito di universale validità, sia che vengano applicate a nuovi ordini di fenomeni, sia che il progressivo affinamento dell'arte sperimentale le sottoponga a un controllo sempre più rigoroso”. Così, dal moto di un corpo materiale alla gravitazione universale, il successo della meccanica ha dato luogo “alla concezione meccanicistica della natura” secondo la quale “tutto l'universo materiale si svolge obbedendo a una legge inflessibile, in modo che il suo stato in un certo istante è interamente determinato dallo stato in cui si trovava nell'istante precedente; segno che tutto il futuro è implicito nel presente, nel senso che può essere previsto con assoluta certezza purché lo stato attuale dell'universo sia interamente noto”. Anche la relatività è sembrata confermare il punto essenziale della concezione meccanicistica, cioè la completa causalità fisica.



“Non è contestabile che si debba al determinismo il merito principale e quasi esclusivo di aver reso possibile il grandioso sviluppo moderno della scienza, anche in campi lontanissimi dalla fisica. Eppure il determinismo, che non lascia alcun posto alla libertà umana e obbliga a considerare come illusori, nel loro apparente finalismo, tutti i fenomeni della vita, racchiude una reale causa di debolezza: la contraddizione immediata e irrimediabile con i dati più certi della nostra coscienza”.

“Secondo la moderna teoria atomica, (…) dall'unione di due o più atomi di specie uguale o diversa, o talvolta da atomi isolati, risultano le molecole, [che] lungi dall'occupare una posizione fissa, sono animate da un movimento rapidissimo di traslazione e di rotazione su se stesse. La struttura molecolare dei corpi gassosi è particolarmente semplice. Infatti nei gas in condizioni ordinarie le singole molecole si possono considerare come particolarmente indipendenti, e a distanze reciproche considerevoli rispetto alle loro ridottissime dimensioni; segue, per il principio di inerzia, che il loro moto di traslazione è rettilineo e• uniforme, subendo modificazioni quasi istantanee nella direzione e nella misura della velocità solo in occasione di urti reciproci. Se supponiamo di conoscere esattamente le leggi che regolano l'influenza mutua delle molecole, dobbiamo attenderci, secondo i principii generali della meccanica, che basti inoltre conoscere nell’istante iniziale la disposizione di tutte le molecole e le loro velocità di traslazione e di rotazione, per poter prevedere in principio (…) quali saranno le esatte condizioni del sistema dopo un certo tempo. L'uso dello schema deterministico proprio della meccanica subisce tuttavia una reale limitazione di principio quando teniamo conto che i metodi ordinari di osservazione non sono in grado di farci conoscere esattamente le condizioni istantanee del sistema, ma ci danno solo un certo numero di informazioni globali”.

Possiamo determinare a livello macroscopico lo stato di un sistema fisico, ad esempio quello risultante da una certa quantità di un determinato gas: conoscendo pressione e densità è possibile risalire a tutte quelle altre grandezze, come temperatura, coefficiente di viscosità, ecc., che potrebbero essere oggetto di particolari misure. Tuttavia esse non sono “evidentemente sufficienti a stabilire in ogni istante la sua esatta struttura interna, cioè la distribuzione delle posizioni e velocità di tutte le sue molecole”.

Immaginiamo che A sia lo stato macroscopico di un sistema e a il suo stato reale. Ad A corrisponde un gran numero di possibilità effettive a, a’, a’’.... che le nostre osservazioni non ci permettono di distinguere. Il numero N di queste possibilità interne secondo la fisica classica sarebbe infinito, ma la teoria dei quanti ha introdotto nella descrizione dei fenomeni naturali una discontinuità per la quale N è finito, sebbene grandissimo. “Il valore di N dà una misura del grado di indeterminazione nascosta del sistema; è però praticamente preferibile considerare una grandezza proporzionale al suo logaritmo, ovvero S = k log N, essendo k la costante universale di Boltzmann, determinata in modo che S coincida con una grandezza fondamentale, già nota, della termodinamica: l'entropia.

Non è difficile determinare il complesso di configurazioni interne a, a’, a’’ ..... che corrisponde allo stato macroscopico A. Si può invece discutere se tutte le singole possibilità a, a', a" .... si debbano considerare come egualmente probabili. Ebbene, secondo la cosiddetta ipotesi ergodica, “se un sistema persiste indefinitamente in uno stato A, allora si può affermare che esso passa un'eguale frazione del suo tempo in ciascuna delle configurazioni a, a’, a’’....; si è così condotti a considerare effettivamente come egualmente probabili tutte le possibili determinazioni interne. (…) Risulta così interamente definito il complesso statistico associato ad ogni stato macroscopico A”.

“Il problema generale della meccanica statistica si può così riassumere: essendo definito statisticamente, come si è detto, lo stato A iniziale del sistema, quali previsioni sono possibili in riguardo al suo stato al tempo t? (…) Supponiamo (…) che lo stato iniziale del sistema in esame risulti da un complesso statistico A = (a, a', a" ..... ) di casi possibili e, per quanto si è detto, egualmente probabili. Ciascuna di queste determinazioni concrete si modifica nel corso del tempo secondo una legge che, in accordo con i principii generali della meccanica, dobbiamo ancora ritenere rigidamente causale, cosicché dopo un certo tempo si passa dalla serie a, a’, a’’ ... a un’altra serie ben determinata b, b’, b’’....; il complesso statistico (b, b', b" ..... ), che è anch’esso costituito da N elementi egualmente probabili come il complesso originario A (…), definisce tutte le possibili previsioni sullo svolgimento del sistema. [Ora], accade in generale che tutti i casi semplici appartenenti alla serie b, b’, b’’.... salvo un numero del tutto insignificante di eccezioni, costituiscono in tutto o in parte un nuovo complesso statistico B definito come A da uno stato macroscopicamente ben determinato. Possiamo allora enunciare la legge statistica secondo la quale vi è la pratica certezza che il sistema debba passare da A in B. Per quanto si è detto, il complesso statistico B è almeno così ampio come A, cioè contiene un numero di elementi non inferiore a N; segue che l'entropia di B è uguale a quella di A o maggiore. Durante qualunque trasformazione che si compia spontaneamente in accordo con le leggi statistiche si ha quindi costanza o aumento di entropia, mai diminuzione: è questo il fondamento statistico del famoso secondo principio della termodinamica.

“È notevole che dal punto di vista pratico il passaggio da A a B si può considerare come certo; ciò che spiega come storicamente le leggi statistiche siano state considerate dapprima altrettanto fatali delle leggi della meccanica e solo per il progresso dell'indagine teorica se ne sia in seguito riconosciuto il vero carattere. Le leggi statistiche abbracciano gran parte della fisica. (…) Vi è inoltre una intera branca della fisica, la termodinamica, i cui principii, benché fondati direttamente sull'esperienza, si possono ricondurre alle nozioni generali della meccanica statistica. Per quanto abbiamo fatto finora, si può così riassumere il significato delle leggi statistiche secondo la fisica classica: 
l) i fenomeni naturali obbediscono ad un determinismo assoluto; 
2) l'osservazione ordinaria non permette di riconoscere esattamente lo stato interno di un corpo, ma solo di stabilire un complesso innumerevole di possibilità indistinguibili; 
3) stabilite delle ipotesi plausibili sulla probabilità delle diverse possibilità, e supposte valide le leggi della meccanica, il calcolo delle probabilità permette la previsione più o meno certa dei fenomeni futuri”.

“Possiamo ormai esaminare il rapporto che passa fra le leggi stabilite dalla meccanica classica e quelle regolarità francamente empiriche che sono note con lo stesso nome in modo particolare nelle scienze sociali”.
 
(…) “L'analogia formale non potrebbe essere più stretta. Quando si enuncia, ad es., la legge statistica: «In una società moderna di tipo europeo il coefficiente annuo di nuzialità è prossimo a 8 per 1000 abitanti», è abbastanza chiaro che il sistema su cui dobbiamo eseguire le nostre osservazioni è definito solo in base a certi caratteri globali, rinunziando deliberatamente a indagare tutti quei dati ulteriori (come per es. la biografia di tutti gli individui che compongono la società in esame) la cui conoscenza sarebbe indubbiamente utile”. (…) Analogamente, quando “si definisce lo stato di un gas semplicemente dalla pressione e dal volume, si rinunzia deliberatamente a investigare le condizioni iniziali di tutte le singole molecole”.

“Una differenza sostanziale si potrebbe invece scorgere nel carattere matematicamente definito dalle leggi statistiche della fisica a cui fa riscontro quello chiaramente empirico delle leggi statistiche sociali; [oppure] si potrebbe dare speciale importanza alla differenza nei metodi di rilevazione, che nella fisica sono globali (così basta lettura di uno strumento di misura per conoscere la pressione di un gas benché essa derivi dalla somma degli impulsi indipendenti che le singole molecole trasmettono alle pareti), mentre nelle statistiche sociali si registrano di solito i fatti individuali”, ma non si tratta di differenze sostanziali. “Ammesse così le ragioni che fanno credere all'esistenza di una reale analogia fra le leggi statistiche fisiche e sociali, siamo indotti a ritenere plausibile che, come le prime presuppongono logicamente un rigido determinismo, così le ultime siano da parte loro la prova più diretta che il più assoluto determinismo governa anche i fatti umani, (…), argomento” avvalorato dalla “tendenza a vedere nella causalità della fisica classica un modello di valore universale.” (…)

“Sarebbe qui fuor di luogo riprendere discussioni antiche e mai concluse” sul diverso approccio di scienze fisiche e scienze sociali, ma va accolto con grande attenzione “l'annunzio che negli ultimissimi anni la fisica è stata costretta ad abbandonare il suo indirizzo tradizionale rigettando, in maniera verosimilmente definitiva, il determinismo assoluto della meccanica classica”.

(…) “Vi sono dei fatti sperimentali noti da gran tempo (fenomeni di interferenza) che depongono irrefutabilmente a favore della teoria ondulatoria della luce; altri fatti scoperti da recente (effetto Compton) suggeriscono, al contrario, non meno decisivamente l'opposta teoria corpuscolare. Tutti i tentativi di comporre la contraddizione nel quadro della fisica classica sono rimasti assolutamente infruttuosi (…). Senonché di tali fatti inesplicabili (…) si è trovata realmente da pochi anni la spiegazione unica e meravigliosamente semplice: quella contenuta nei principii della meccanica quantistica. (…) Gli aspetti caratteristici della meccanica quantistica, in quanto essa si differenzia dalla meccanica classica sono i seguenti:

a) non esistono in natura leggi che esprimano una successione fatale di fenomeni; anche le leggi ultime che riguardano i fenomeni elementari (sistemi atomici) hanno carattere statistico, permettendo di stabilire soltanto la probabilità che una misura eseguita su un sistema preparato in un dato modo dia un certo risultato, e ciò qualunque siano i mezzi di cui disponiamo per determinare con la maggior esattezza possibile lo stato iniziale del sistema. Queste leggi statistiche indicano un reale difetto di determinismo, e non hanno nulla di comune con le leggi statistiche classiche nelle quali l'incertezza dei risultati deriva dalla volontaria rinunzia, per ragioni pratiche, a indagare nei più minuti particolari le condizioni iniziali dei sistemi fisici. (…)

b) una certa mancanza di oggettività nella descrizione dei fenomeni. Qualunque esperienza eseguita in un sistema atomico esercita su di esso una perturbazione finita che non può essere, per ragioni di principio, eliminata o ridotta. Il risultato di qualunque misura sembra perciò riguardare piuttosto lo stato in cui il sistema viene portato nel corso dell'esperimento stesso che non quello inconoscibile in cui si trovava prima di essere perturbato. Questo aspetto della meccanica quantistica è senza dubbio più inquietante, cioè più lontano dalle nostre intuizioni ordinarie, che non la semplice mancanza di determinismo”



“Fra le leggi probabilistiche riguardanti i fenomeni elementari è nota da più antica data quella che regola i processi radioattivi. (…) La meccanica. quantistica ci ha insegnato a vedere nella legge esponenziale delle trasformazioni radioattive una legge elementare non riducibile .ad un più semplice meccanismo causale. Naturalmente anche le leggi statistiche note alla meccanica classica e riguardanti sistemi complessi, conservano la loro validità secondo la meccanica quantistica”.

“Quest’ultima modifica peraltro le regole per la determinazione delle configurazioni interne, e in due modi diversi, a seconda della natura dei sistemi fisici, dando luogo rispettivamente alle teorie statistiche di Bose-Einstein, o di Fermi. Ma l'introduzione nella fisica di un nuovo tipo di legge statistica, o meglio semplicemente probabilistica, che si nasconde, in luogo del supposto determinismo, sotto le leggi statistiche ordinarie, obbliga a rivedere le basi dell'analogia che abbiamo stabilita più sopra con le leggi statistiche sociali”

Esistono infatti le condizioni per fondare l’analogia tra le leggi statistiche della fisica e delle scienze sociali su basi nuove. A questo punto Majorana propone un esperimento mentale a supporto della sua tesi, e cioè che, come nelle scienze fisiche, così anche in quelle sociali il caso può giocare un ruolo fondamentale, in grado di contestare radicalmente ogni forma di rigido determinismo anche in questo ambito:

“La disintegrazione di un. atomo radioattivo può obbligare un contatore automatico a registrarlo con effetto meccanico, reso possibile da adatta amplificazione. Bastano quindi comuni artifici di laboratorio per preparare una catena comunque complessa e vistosa di fenomeni che sia comandata dalla disintegrazione accidentale di un solo atomo radioattivo. Non vi è nulla dal punto di vista strettamente scientifico che impedisca di considerare come plausibile che all'origine di avvenimenti umani possa trovarsi un fatto vitale egualmente semplice, invisibile e imprevedibile. Se è così, come noi riteniamo, le leggi statistiche delle scienze sociali vedono accresciuto il loro ufficio, che non è soltanto quello di stabilire empiricamente la risultante di un gran numero di cause sconosciute, ma sopratutto di dare della realtà una testimonianza immediata e concreta. La cui interpretazione richiede un'arte speciale, non ultimo sussidio dell'arte di governo”

Così, secondo Majorana, come una catena di fenomeni può essere comandata dalla disintegrazione accidentale di un solo atomo radioattivo, nulla impedisce di considerare plausibile che all'origine di avvenimenti umani (e, possiamo aggiungere, biologici) possa trovarsi un fatto vitale egualmente semplice, invisibile e imprevedibile, con buona pace di chi nega all'evoluzionismo lo statuto di scienza perché esso comporta mutazioni accidentali non riconducibili a “una trattazione matematica”. Forse il riduzionismo è la malattia senile di certi noti fisici, che pure l’opera di Majorana dovrebbero conoscerla a menadito.

Erasmo Recami (1998). Catalog of the scientific manuscripts left by Ettore Majorana (with a Recollection of E.Majorana, sixty years after his disappearance) Quad.Storia Fis. 5 (1999) 19-68 arXiv: physics/9810023v5

Erasmo Recami (2007). L'articolo di Ettore Majorana su "Il valore delle Leggi Statistiche nella Fisica e nelle Scienze Sociali" (Ettore Majorana's article on "The value of Statistical Laws in Physics and in Social Sciences") Fisica in Medicina (2006), issue no.3, pp.261-265 arXiv: 0709.3537v1

martedì 24 luglio 2012

Memorie di una guerra fratricida,
di Anna Maccagni

Piacenza, 12 ottobre 1443 

Sono ormai quattro i mesi trascorsi in questa città di Lombardia, dove il padre mio mi ha mandato per impratichirmi nel mestiere di mercante. Il mio ospite e maestro, Matteo Cigala, mi ha accolto in casa sua come se fossi un figlio e, sotto la sua guida, ho cominciato a destreggiarmi tra numeri e scritture e ad imparare a riconoscere la qualità delle sete e delle lane. 
Avrò tempo in seguito per descrivere la città ed elogiarne gli abitanti e la cucina, perché ora mi preme raccontare i fatti curiosi che, da un po' di tempo, si stanno verificando a Piacenza. Qui sorge un antico convento dei domenicani, dedicato a San Giovanni e che quelli del posto chiamano San Giovanni al Canale per via della Beverora che vi scorre davanti. Ebbene, sembra che i padri conventuali non conducano più la vita esemplare di una volta, tanto che i piacentini, che di cose sacre evidentemente ne sanno più di me, hanno chiesto ed ottenuto che essi venissero sostituiti dai loro fratelli osservanti. Così, qualche giorno fa, muniti delle lettere del Generale dell'Ordine, quelli dell'Osservanza hanno preso possesso di San Giovanni, scacciando tutti gli altri. Sembra che solo due di loro, un certo fra Antonio da Luna e fra Marco Piacentino, siano potuti rimanere e chissà poi perché. Forse i loro occhi lasciavano trapelare una maggiore santità? 


Piacenza, 30 ottobre 1443 

Al ritorno da Milano, dove m'ero recato in compagnia di Matteo Cigala che doveva sbrigarvi certi suoi affari, ho trovato ad attendermi mio cugino Giovanni. Che gradita sorpresa, che feste ci siamo fatti! Non immaginavo proprio d'avere tutta questa nostalgia di casa… Giovanni mi ha portato alcuni pacchi e una lettera di mio padre. Caro padre, si preoccupa sempre per me! Mi ha inviato del denaro, anche se in realtà non ne ho bisogno, dal momento che il signor Matteo non mi fa mancare niente. E che dire di mia madre e delle mie giovani sorelle? Aprendo quei pacchi, che cosa non n'è uscito! Calze, vestiti e mantelli pesanti, affinché tu non abbia a patire il freddo, mi scrivono, perché sappiamo che gli inverni di Lombardia non sono mai come quelli di Genova. Quanta voglia di vederle e riabbracciarle! 
Ma bando alle malinconie! C'è una bella notizia: i frati osservanti hanno ripreso in seno alla loro comunità i fratelli conventuali. Sicuramente hanno mostrato una grande pietà; infatti, come avrebbero potuto cavarsela gli espulsi, soprattutto dopo il pubblico editto con il quale è stato vietato a chiunque, sotto pene gravissime, di dar loro consiglio, aiuto e favore? 


Piacenza, 8 novembre 1443 

Sembra che le cose tra i padri predicatori si stiano mettendo male. Anziché mettere pace, la riammissione dei conventuali ha inasprito ancor più gli animi. Ogni giorno, in città, si viene a sapere di screzi e dispettucci tra frati d'opposta fazione. Forse i conventuali non riescono proprio a vedersi come semplici fraticelli, senza alcun ruolo importante, obbligati a seguire tutte le osservanze della Regola in un luogo dove, poco tempo prima, erano padroni. 


Piacenza, 15 dicembre 1443 

Neanche l'approssimarsi del Santo Natale riesce a calmare gli animi di coloro che abitano nel convento di San Giovanni. In quest'ultimo mese, il traffico da una sponda all'altra del Po pare tornato quello dei periodi in cui si sta preparando una guerra; il via vai dei rappresentanti e dei deputati, che i due contendenti inviano a Milano, continua ad aumentare e si moltiplicano le lettere mandate al Padre Generale e al Papa. Tuttavia sembra che una decisione sia già stata presa e non so quanto piacere farà ai conventuali: a costoro sarà concesso di poter abitare in convento, e a spese del medesimo, ma a far da padroni saranno gli osservanti.


Piacenza, 3 gennaio 1444 

Ma in quali tempi viviamo? In questo clima è chiaro che abbiano buon gioco coloro che alimentano e diffondono foschi presagi e angosciose inquietudini. Mi viene in mente quel tale, fra Giambattista dell'Ordine dei Romitani, che, la scorsa estate, aveva creato tumulti, vaneggiando dell'Anticristo nato a Babilonia… Il vescovo di Piacenza lo mise a tacere; ma quanti altri visionari bisognerà zittire, se continuerà ad affievolirsi lo spirito religioso e l'amore agli studi dei nostri monaci? La scorsa notte, infatti, le controversie tra i domenicani hanno raggiunto il culmine: i conventuali, a furia di bastonate e di ferite, hanno cacciato fuori del convento quelli dell'Osservanza; e questo in barba ai nuovi ordini del Pontefice e alle prescrizioni dell'arcivescovo di Milano, che in questa causa funge da delegato apostolico. 


Piacenza, 18 febbraio 1444 

Forse questa scandalosa e ridicola guerra fratesca è giunta alla fine. Alcuni giorni orsono, gli ufficiali del duca hanno arrestato e rinchiuso nelle carceri della Cittadella parecchi conventuali, tra cui fra Rainaldo Cartàro. Non è stata una cosa facile liberare il convento per restituirlo agli osservanti: lo sforzo è stato durissimo e si è combattuto per tutto il giorno, fino a sera. Giunti allo stremo, i conventuali si sono arresi e, dopo aver spogliato tutto il monastero, lo hanno lasciato a quelli dell'Osservanza che ne hanno preso possesso pacificamente, senza strepito alcuno. La qual cosa sembra non abbiano fatto i conventuali che, carichi dei beni saccheggiati e armati di picche e forconi, hanno abbandonato San Giovanni simili ad una soldataglia che lascia l'accampamento. E come soldati hanno avuto i loro feriti e persino un morto: mentre gli uomini del duca tentavano di scalare i muri del convento, un conventuale - un certo fra Guglielmo da Gragnano - è caduto giù dal tetto, finendo nel rivo vicino. 


Piacenza, 1 aprile 1444

Ieri sera abbiamo ricevuto la visita di Antonio Gallo, un amico del signor Matteo. Oltre a parlare di certi prestiti che ci farebbe il Banco di San Giorgio, ci ha raccontato com'è andata la discussione dell'altro ieri, tenuta nella sala vescovile, che vedeva tutti i domenicani a confronto, alla presenza di emeriti religiosi e laici piacentini. Tra costoro c'era il signor Antonio che, da molti anni ormai, fa parte dei notabili della città pur vantando le sue origini genovesi. Pare che l'esame della situazione tra i due contendenti sia stato lunghissimo; ma alla fine tutti - il vescovo stesso, il commissario del duca, i molti religiosi, dottori e gentiluomini - hanno sentenziato in favore degli osservanti. 
"E adesso dove andranno i conventuali?" ho chiesto al signor Antonio. 
"Sicuramente non moriranno di fame, caro Lorenzo. Alcuni hanno trovato ricovero nella mansione della Misericordia, altri nel convento di Galilea fuori città; parte qua e là per le case dei loro parenti, amici e sostenitori. Sembra che alcuni di loro si fossero già sistemati presso il prevosto di Santa Brigida; ma un ordine successivo l'ha obbligato, sotto pena della privazione del beneficio, ad allontanarli". 
Chissà se questa storia può dirsi conclusa? Il signor Matteo, con il senso pratico del mercante genovese - pur essendo da molti anni cittadino di Piacenza - pensa che la città abbia perso fin troppo tempo a dividersi e a parteggiare per quello o quell'altro dei contendenti. Da parte mia devo costatare quanto poco avevo compreso del temperamento dei piacentini. Chiusi e riservati - avevo scritto alla mia famiglia - come la nebbia che avvolge torri e campanili, come le facciate austere delle case che nascondono più che rivelare… E, invece, quanta passione e sentimento dietro quell'aspetto dignitoso! 


Piacenza, 10 aprile 1444 

Credevo di non dover più parlare di questa squallida vicenda, perché pensavo che si fosse già toccato il fondo. Ma oggi, Venerdì Santo, è stato chiaro a tutti quanto la miseria umana non abbia limiti, anche in coloro che, per vocazione, dovrebbero fare da intermediari tra noi e il Cielo. 
Ecco i fatti: stamani, per un gesto di cortesia ed anche per la curiosità di vedere il luogo, ho accompagnato in San Giovanni la moglie e la figlia del signor Matteo, le quali desideravano ascoltare la predica di fra Donato degli osservanti di San Domenico. La chiesa era gremita di uomini e donne, nobili matrone e gentiluomini; come noi, erano molti quelli di altre parrocchie, venuti soprattutto per vedere coi propri occhi il teatro di tante e violente diatribe. Ad un tratto, mentre fra Donato era impegnato in sottigliezze dialettiche e teologiche, hanno cominciato a piovere sassi attraverso le finestre della chiesa. Il fragore era assordante, la gente quasi s'accapigliava per trovare riparo o per giungere all'uscita. Fra grida, urla e spintoni sono riuscito a portare in salvo la signora Giustina e la figlia Caterinetta. Poi, non appena ho potuto, sono tornato sul posto. 
Che cosa era successo? Un gran numero di uomini, su richiesta dei conventuali, avevano assaltato il convento; rotta la porta del Torchio, erano entrati nel chiostro di Sant'Alessio, dove con picche, pietre e balestre avevano combattuto ferocemente. 
"E c'è mancato poco che bruciassero il convento! - mi ha detto un uomo. - Per fortuna qualcuno ha cominciato a battere a stormo con la campana: un mucchio di persone si è riversato fin qui, spinto anche dalle esortazioni del canonico che stava predicando in piazza del duomo. Ma quando vengono le guardie?"
In quel mentre, è arrivato il podestà con tutta la corte armata. Subito i malfattori si sono dati alla fuga, chi da una parte e chi dall'altra. Alcuni, però, sono stati catturati e condotti alla prigione del castello di Sant'Antonino. 
Chissà se almeno nel giorno di Pasqua ci sarà una tregua? 


Piacenza, 15 ottobre 1444 

Sono appena tornato da Lione. Ancora carico d'emozioni e di ricordi, sono stato riportato bruscamente alla realtà con le solite e meschine beghe monastiche. 
Dunque, pare che i conventuali, dopo vari assalti e successive cacciate, ce l'abbiano fatta. Ma andiamo con ordine. Alla fine d'agosto, quando con Matteo Cigala stavo inerpicandomi per la strada tortuosa del Moncenisio, i conventuali avevano ripreso il controllo di San Giovanni. Evidentemente il loro ricorso alla violenza non aveva turbato più di tanto il duca di Milano: di lì a poco, in virtù d'alcune sue lettere, il convento veniva restituito ai frati dell'Osservanza. Finché, qualche giorno fa, si sono rinnovate le scandalose scene da parte dei conventuali, che sono riusciti a cacciare gli osservanti. Per quanto tempo non si sa; dipende dalle decisioni che verranno prese. Per ora si parla di scomuniche… 


Piacenza, 1 novembre 1444 

Poche righe per dire che tutte le clamorose liti tra i domenicani sono finite. Forse tutti i santi del Cielo, messi insieme, sono riusciti dove uno solo di loro, San Domenico, niente aveva potuto. Assolti dalle scomuniche, mediante la restituzione fatta alla sagrestia di San Giovanni dei libri, dei paramenti, dei calici e di tutte le cose di cui s'erano impossessati, i conventuali rimangono padroni del campo. 


Piacenza, 5 febbraio 1445 

"Caro Lorenzo, che cosa credevi? Di questi tempi - pensa soltanto al duca che cerca di liberarsi di suo genero, lo Sforza, o alle lotte appena finite tra i vari papi per occupare la cattedra di San Pietro - non c'è da meravigliarsi che dei frati si facciano la guerra" mi diceva, questa sera, il signor Matteo. 
Sarà pur vero, tuttavia queste cose mi scandalizzano ancora. Non contenti di rimanere padroni di San Giovanni, i conventuali hanno preso a perseguitare quelli dell'Osservanza: giorni fa imprigionando fra Pietro Rinaldi, che si era rifugiato nelle case del Consorzio dello Spirito Santo, e oggi catturandone altri. 
"Dio solo sa come, hanno armato una grossa masnada di uomini - gente pessima, dico io - e con questa gentaglia sono andati alla parrocchia di San Giorgio dove si erano rifugiati gli osservanti. Ne hanno presi alcuni, che poi hanno cacciato nelle carceri di San Giovanni. Quattro frati dell'Osservanza, che erano ospitati in casa di Lazzaro della Porta, sono sfuggiti all'arresto per miracolo: Giovanni Anguissola, avuto forse il sentore di quanto si andava preparando, è riuscito nottetempo a farli arrivare sani e salvi a casa sua con la scorta di duecento uomini armati". 


Piacenza, 14 maggio 1445 

Ho riletto queste pagine e mi sono reso conto che rispondono ben poco a quanto mi ero proposto di fare. Avevo cominciato a scrivere, pensando che ciò potesse servire da sfogo nei momenti di solitudine; dovevano essere le impressioni di un forestiero ospitato in una terra non sua, le memorie di viaggi e di fatti curiosi. Avete visto fin dove è andato Lorenzo Trigosio, chi ha incontrato e che cosa ha fatto? immaginavo che avrebbero detto di me i miei discendenti. E invece che cosa mai potranno pensare di un uomo che in questi due anni non ha fatto altro che raccontare una guerra grottesca tra domenicani? Ma dato che sono giunto fino a questo punto della storia, è opportuno che l'aggiorni. 
Le scene che si sono verificate a febbraio sono continuate sino al principio di questo mese. Il podestà, proprio in questi giorni, è riuscito a sventare la cattura di fra Tommaso Bresciano, un predicatore dell'Osservanza. Il piano ordito dai conventuali prevedeva che un certo Baderna Beccajo, su ordine di fra Rainaldo Cartàro e fra Guglielmo Scurzano, rapisse l'osservante per condurlo nelle carceri di San Giovanni.


Piacenza, 22 giugno 1445 

Dopo tanti rabbiosi litigi, Filippo Maria Visconti si è deciso e ha fatto valere la sua autorità: San Giovanni rimane ai conventuali e dello stesso parere è il Maestro Generale dell'Ordine. I più informati dicono che si è giunti a questa decisione per la pressione e gli uffici dei molti e potenti protettori dei conventuali. E i poveri frati dell'Osservanza? Se non riescono a trovare un altro luogo sacro che li ospiti, essi dovranno ribattere la via per cui erano venuti, hanno ordinato il duca e il Generale dei domenicani. 
Dunque questa storia è finita, così come è cominciata; con l'unica differenza che alla gioia ora si sostituiscono le lacrime dei nobili, delle matrone e di chi aveva voluto i frati dell'Osservanza. C'è chi prevede addirittura che il Cielo irato verserà su Piacenza l'intero vaso di Pandora. Io non sarò qui a vedere, visto che tra qualche giorno farò ritorno a Genova, e nemmeno m'interessa la veridicità di questa profezia. Tuttavia una domanda continua ad assillarmi: a cosa è servito tutto ciò? 



Terzo episodio dei racconti piacentini di Anna, questa volta in forma epistolare. Anche questo è tratto da una storia vera, il conflitto sanguinoso all'interno dell’ordine domenicano di Piacenza per il possesso di un monastero, nel triennio 1442-1445. Qualche anno più tardi sarebbe nato Girolamo Savonarola, un altro domenicano capace di incendiare una città.

venerdì 20 luglio 2012

20 luglio: Perché non ci sono più viaggi sulla Luna?



¿Por qué no hay más viajes a la luna?

Cuando el bueno de Armstrong dio aquellos pasos
todos registramos cómo se movía
tosco / pesado / en un suelo blancuzco
¿o era de piedra pómez? ¿quién se acuerda?

Durante un rato estuvo cavillando
y la escafandra o como se llamase
impedía que viéramos sus ojos
pero juraría que su mirada era
de pereza o abulia.

Algo debió explicar a su regresso,
algo diferente al discurso de gloria
que le ordenaron pronunciar eufórico
entre medallas, flores vítores y guirnaldas.

Algo debió decir en privado a sus jefes,
algo importante inesperado.

Verbigracia / Cuando estaba allá arriba,
caminando como un zoombie en la Luna,
mi general mi coronel pensé en ustedes
y se me ocurrió no sé por qué
que debía matarlos con urgencia
uno a uno / dos a dos / etcétera.

O verbigracia dos / Cuando andaba allá / eroico,
pisando las feísimas arrugas del satélite,
imaginé que así debía ser la muerte
es decir el paisaje de la muerte.

O verbigracia tres / cuando estaba en Selene,
paseando por la nada como un imbécil,
setí el asco infinito de la ausencia del hombre
y me dije qué mierda estoy haciendo aquí.

Algo así debe haber confesado a sus jefes,
con su estrenada voz de robot disidente
y quizá por eso los dueños del poder
postergaron sine die los viajes a la Luna.



Perché non ci sono più viaggi sulla Luna?

Quando quel buon uomo di Armstrong fece quei passi,
tutti registrammo come si muoveva,
grossolano, pesante, su un terreno biancastro,
oppure era di pomice? Chi si ricorda?

Per un attimo stavo pensando
e lo scafandro, o come si chiama,
ci impediva di vedere i suoi occhi
ma giurerei che il suo sguardo era
di pigrizia o abulia.

Qualcosa ha dovuto spiegare al suo ritorno,
qualcosa di diverso dal discorso di gloria
che gli ordinarono di pronunciare euforico
tra medaglie, fiori festosi e ghirlande.

Qualcosa ha dovuto dire ai suoi capi,
qualcosa di importante inaspettato.

Cioè: quando ero lassù
camminando come uno zombie sulla Luna
mio generale, mio colonnello pensavo a voi
e mi venne l’idea non so perché
che dovevo uccidervi con urgenza
uno a uno, due a due, eccetera.

O cioè due: quando camminavo lassù, eroico,
calpestando le bruttissime rughe del satellite,
immaginai che così deve essere la morte,
vale a dire il paesaggio della morte.

O cioè tre: quando ero su Selene,
passeggiando per il nulla come un imbecille,
provai il disgusto infinito dell’assenza dell’uomo
e mi son detto che cazzo sto facendo qui.

Qualcosa di simile deve aver confessato ai suoi capi
con la sua voce straniata di robot dissidente
e forse per questo i detentori del potere
rinviarono sine die i viaggi sulla Luna.

                                                                                       (Mario Benedetti, 1920-2009)

Opera buffa, di Anna Maccagni

Nessuno avrebbe potuto immaginare che quell'anno il carnevale sarebbe terminato prima del tempo. Colpito da una violenta indigestione, l'ultimo duca di casa Farnese agonizzava in compagnia degli schiamazzi delle maschere e dell'acciottolio insistente delle carrozze, che s'inseguivano per le vie cittadine sfidando i rigori dell'inverno. Era un requiem assai poco spirituale, ma che si adattava bene a quell'uomo gaudente e portato agli eccessi. 
Steso sul letto e quasi soffocato dalla straripante pinguedine, Antonio Farnese riviveva in una sorta di delirio i momenti più esaltanti della sua ancora breve vita. Invano il confessore cercava di richiamarlo ai suoi ultimi doveri di cristiano; il duca pensava solo alle baldorie fatte prima di dover succedere al fratello, morto senza eredi. 
Torino, Parigi, Londra, i Paesi Bassi, Vienna e poi Roma… Aveva assaporato e gustato i migliori frutti di mezz'Europa: tornei, concerti, balli e banchetti, i vellutati segreti delle alcove, niente era sfuggito alla sua insaziabile ingordigia. I ricordi fluivano, si sovrapponevano e si frammentavano nelle immagini più strane: carni burrose di cortigiane che si squagliavano in bocca come dolci zabaioni, voluttuose consistenze d'ostrica che scivolavano umide sulle labbra… 
Il sacerdote guardò con disgusto quel corpo enorme che si agitava sul letto di morte e il viso arrossato che s'illuminava ancora di lascivia e di desideri impronunciabili. Come poteva concedere l'assoluzione ad un uomo che non dava segno di voler morire cristianamente? D'altronde era impossibile rifiutare il perdono di Dio a chi tra gli avi contava un papa e alcuni cardinali, a meno di suscitare uno scandalo d'enormi proporzioni. Monsignor Marazzani gli aveva lasciato capire che tutta la curia romana guardava al duca con particolare benevolenza; e quando un monsignore diceva tutta a quel modo, alzando un dito in direzione del cielo, ad un povero prete non restava altro che obbedire. Così, allontanando gli scrupoli come se fossero insetti molesti, benedisse il moribondo concedendogli la remissione di tutti i peccati. 
All'indomani della morte dell'ultimo Farnese, quando già gli spagnoli e l'imperatore si preparavano a prendere possesso di Piacenza e Parma e i papalini scalpitavano a Bologna per fare altrettanto, si aprì il testamento e si venne a sapere che la dinastia, che aveva governato le due città per circa duecento anni, non si era estinta. Il duca Antonio, infatti, convinto che la moglie fosse rimasta incinta, aveva lasciato suo erede il ventre pregnante della Serenissima signora Duchessa. 

Monsignor Marazzani camminava inquieto da più di mezz'ora. Il suo passo pesante, riconoscibile per lo sbattere dei tacchi, risuonava per il lungo corridoio che portava agli appartamenti ducali. 
"Credete che ci vorrà ancora molto?" chiese al commissario apostolico. 
"Mettetevi tranquillo! Il medico e le levatrici che stanno visitando la duchessa sanno il fatto loro. Vedrete che tra un po' verranno a confermarci quanto già sappiamo". 
"Ma se, per ipotesi, la duchessa non fosse incinta?" 
"Per carità, monsignore… per carità! Non pensatelo neanche! Sapete bene quanto ne soffrirebbe il pontefice, che tanto ha fatto perché questa dinastia continuasse". 
Monsignor Marazzani ricordava bene con quale zelo il papa avesse cercato di dare moglie ad Antonio Farnese, che dal canto suo aveva ben altro in mente. Diverse erano state le proposte di matrimonio, tutte lasciate cadere: una Condé, una Borghese, una principessa del Liechtenstein… Finché era arrivata Enrichetta, la terzogenita del duca di Modena, che aveva sposato Antonio quando ormai nessuno ci sperava più. 
"Parliamoci chiaro, monsignore - continuò il commissario apostolico. - Dove troveremmo un'altra famiglia disposta a governare sotto l'altro patronato della curia? Non penso proprio che l'infante di Spagna, proposto come successore dei Farnese dai trattati di pace di Vienna, sia quello che si definisce un docile agnello! Perciò negli interessi della Chiesa dobbiamo credere fermamente all'esistenza di un erede e, trattato o no, vedrete che alla fine gli imperiali se ne dovranno andare". 
Camillo Marazzani percepì dell'astio nella voce dell'uomo mandato da Roma. Evidentemente l'arrivo dei tedeschi, che avevano occupato il ducato in nome dell'infante Carlo, gli bruciava ancora; pareva quasi che avesse subito un affronto personale… Cosa avrebbe potuto fare un individuo del genere, se tutto non fosse andato secondo i suoi piani? 
Ad un tratto, da una delle porte, uscirono il medico e le cinque levatrici che avevano visitato Enrichetta.
"Dunque?" chiese il commissario apostolico con voce leggermente stridula. 
"Possiamo affermare che la signora duchessa è in stato interessante" rispose il medico, senza mai staccare gli occhi dalle cinque donne. 
"Ne siete davvero sicuri? Siete pronti a firmare una dichiarazione giurata?" 
"Naturalmente. Se desiderate interrogare le levatrici, anche loro non potranno che ribadire quanto vi ho già detto. Non è vero? Rispondete dunque!" le esortò il medico con fare arrogante. 
Abbastanza in soggezione, le donne confermarono la gravidanza. 
"Va bene, va bene! Adesso potete ritirarvi… Avete visto, monsignore? La reggenza della duchessa è salva!" esclamò compiaciuto il commissario. 
"Sì, ma per quanto tempo ancora?" pensò Camillo Marazzani. Se anche in quei pochi mesi fosse andato tutto bene, che cosa sarebbe capitato al ducato, se a nascere fosse stata una femmina anziché il sospirato erede maschio? La soldataglia spagnola, angherie, nuovi soprusi… Con quelle immagini negli occhi, il prelato cominciò ad invocare la divina provvidenza, perché esaudisse i desideri del papa. 

Seduta ad una delle grandi finestre della sua camera, Enrichetta lasciava correre lo sguardo sugli alberi del parco. Che strano… Non si era mai accorta del languore sottile che coglieva le piante nel mese di settembre; bastava un refolo di vento o la bava impalpabile delle prime foschie, per fare breccia tra il fogliame rigoglioso. Già, ma quante volte si era fermata ad osservare ciò che la circondava? Sapeva di non essere molto intelligente: la dolce e cara Enrichetta dicevano di lei a Modena, poiché era evidente che non riuscivano a trovare un complimento migliore. Non era brillante, né bella e non aveva nessuna delle doti che avevano rese grandi le sue ave. Il matrimonio con Antonio Farnese era giunto inaspettato, quando tutti ormai la vedevano vestita da monaca in uno dei tanti conventi della zona. 
"Antonio, perché mi avete lasciata?" singhiozzò, versando qualche lacrima. 
Si sentiva perduta senza le cure e le attenzioni che il duca le aveva sempre prestato. All'inizio, quell'uomo grasso e molto più anziano di lei l'aveva spaventata; poi si era resa conto che quel poco che le chiedeva come marito veniva ogni volta ripagato con larghezza e signorilità. Le aveva fatto conoscere i giardini di delizia, i carnevali, le feste e le parate e lei si era fatta trascinare in quella girandola di lusso e di divertimenti con la leggerezza e l'irresponsabilità di una bambina. 
La morte di Antonio aveva interrotto quel gioco e di colpo si era trovata circondata da persone importanti, che conosceva poco e che non le piacevano affatto, le quali avevano preso il controllo della situazione, imponendole un ruolo che non era suo. Voleva fuggire, scappare… Ma dove avrebbe potuto nascondersi, se gli occhi gelidi del commissario apostolico la seguivano ovunque? Anche durante la visita che le avevano imposto per verificare il suo stato, aveva sentito quello sguardo su di sé e le mani che perquisivano, violavano e umiliavano la sua intimità le erano sembrate quelle dell'incaricato del papa. 
Tutto ciò che riguardava quella visita costituiva ancora un mistero. Ne aveva atteso il responso con timore e trepidazione, allo stesso modo di chi aspetta d'essere liberato d'un peso o d'una colpa. E invece non era successo nulla: il medico e le levatrici avevano accertato la gravidanza con soddisfazione di tutti, anche del papa che, con un breve, aveva confermato la reggenza. Nessuno aveva notato il suo stupore e il suo imbarazzo. 
"Coraggio, duchessa - le aveva detto il vescovo Marazzani, immaginando che temesse per il buon esito della gravidanza. - Affidiamoci a Dio, perché tutto dipende dalla sua volontà!" 
Gli occhi del commissario apostolico l'avevano sfiorata con un guizzo beffardo, in cui si mescolavano provocazione e ammonimento, e a lei non era rimasto altro che tacere. 
Il letto troneggiava in mezzo alla stanza: preziose sete, finissime tele di Fiandra, pizzi e merletti d'un candore immacolato attendevano da giorni che si compisse il lieto evento. 
Nascosta dietro una pesante portiera, Enrichetta vedeva finalmente il luogo dove si sarebbe deciso il suo destino. Avrebbe dato qualsiasi cosa per liberarsi dalla rete tessuta con le fragili illusioni del marito. Povero Antonio! Oppresso dalle continue insistenze del papa, aveva creduto che quella notte avesse risolto tutti i problemi della successione. Oh, ma non gliene faceva una colpa! Anche lei, alla lettura del testamento, se n'era convinta, nell'intima persuasione che le parole di un uomo ormai giunto in Cielo non potessero non essere vere. 
Poi erano giunti i giorni del disinganno, ma per lei non c'era stato niente da fare. Come poteva dire la verità, quando nessuno voleva udirla? E più il tempo passava e più era difficile parlare: temeva di deludere le aspettative di tutto il ducato, temeva di essere derisa ed umiliata. Era al corrente che nelle città si scommetteva sulla sua gravidanza e che molti ridevano ancora per quel ventre pregnante scritto nel testamento. Così si era rassegnata e aveva cominciato a sperare in un miracolo. C'erano tanti santi in paradiso, capaci di compiere cose meravigliose! C'era chi riattaccava una gamba, chi sanava ferite, chi riportava in vita i morti. Piangerò la mia vedovanza e piangerò la mia sterilità si lamentava Sant'Anna; ma il Signore aveva ascoltato la sua preghiera... Perché non poteva capitare anche a lei di ricevere una grazia? Si era aggrappata con tenacia a quest'idea e continuava a crederci ancora, nonostante fosse ormai scaduto il tempo senza che niente fosse accaduto. 
"Che fate, signora duchessa? - chiese una delle sue dame, scorgendola dietro alla portiera. - Nelle vostre condizioni, non dovreste stare in piedi!" 
"Perché stanno mettendo quelle sedie? Perché quelle poltrone attorno al letto?" domandò Enrichetta. 
"Ci sarà molta gente ad assistere al parto, duchessa. I membri della reggenza, i legati del papa e quelli dell'imperatore…" 
"Volete dire che saranno tutti qui, mentre io…" 
"La nascita di un Farnese non è mica una questione che si risolve in famiglia! - esclamò la dama, sconcertata da quell'ingenuità un po' ottusa. - Vedete? Là sederanno il vescovo e il commissario apostolico; qui il conte Baiardi e il conte Dal Verme…" 
Enrichetta non sentiva più le parole della donna. Tutto le girava attorno: vedeva i visi, le espressioni, le smorfie di quel pubblico scelto, che attendeva le ultime battute di quella farsa. S'immaginò le risate di derisione e di scherno, le volgarità pensate e mormorate, la pietà e il disprezzo. Vide l'orrore in cui stava precipitando… 
"Non sono incinta! - urlò con tutto il fiato che aveva in gola. - Non sono incinta, non lo sono mai stata!" 
"Che dite, duchessa? Calmatevi, per carità! Qualcuno potrebbe sentirvi e andare a riferire cose non vere!"
"Non sono incinta! Qui non c'è nessuno che deve partorire!" gridò ancora la duchessa, sfuggendo all'abbraccio della dama. 
Qualcun altro, però, dovette udirla, poiché in breve tempo tutti furono al corrente della falsa gravidanza; la sentì anche il commissario apostolico, mentre era ancora intento alle sue macchinazioni impossibili. 

Il 14 settembre 1731 poteva dirsi conclusa l'opera buffa recitata all'ombra del teatro Farnese: con un comunicato ufficiale, in cui dichiarava sul suo onore di essersi ingannata, Enrichetta usciva di scena. Accompagnata dalle continue e vane proteste del papa, cominciava l'epoca dei Borboni. 


–O–O–O– 


Il secondo dei racconti piacentini ancora inediti di Anna. Anche questo è tratto da una storia vera, compreso il bizzarro particolare del titolo lasciato da Antonio Farnese (1679-1731), ultimo della dinastia, al ventre pregnante della moglie Enrichetta d’Este che non era incinta. Il ducato passò così ai Borbone.

giovedì 19 luglio 2012

Il Magnete di Thomas Stanley

The Magnet


Ask the Empresse of the night 
How the hand which guides her sphear, 
Constant in unconstant light, 
Taught the waves her yoke to bear, 
And did thus by loving force 
Curb or tame the rude seas course. 
Ask the female Palme how shee 
First did woo her husbands love; 
And the Magnet, ask how he 
Doth th'obsequious iron move; 
Watters, plants and stones know this, 
That they love, not what love is. 
Be not then less kind than these, 
Or from love exempt alone, 
Let us twine like amorous trees, 
And like rivers melt in one; 
Or if thou more cruell prove 
Learne of steel and stones to love.

Il magnete

Chiedi all’Imperatrice della notte
come la mano che regge la sua sfera,
costante nella luce incostante,
insegnò alle onde a reggere il suo giogo
e lo fece con forza d’amore,
frenando o domando il corso dei mari.
Chiedi alla Palma femmina come
per prima corteggiò dei mariti l’amore;
e al Magnete chiedi come
fa muovere il ferro obbediente;
acque, piante e pietre lo sanno,
che essi amano, non che cos’è l’amore.
Non essere allora di questi meno gentile,
o dall’amore esclusa e sola;
intrecciamoci come alberi amorosi,
e come fiumi fondiamoci in uno;
o, se ti mostrerai più crudele,
dall'acciaio e dalle pietre impara ad amare.

L’inglese Thomas Stanley (1625-1678), poligrafo e traduttore attivo nei travagliati quarti centrali del Seicento, è ricordato principalmente per la monumentale History of Philosophy in quattro volumi (1655-1662), che rimase l’opera di riferimento sulla materia fino al XIX secolo inoltrato. Come poeta fu uno dei cosiddetti “poeti metafisici”, per i quali il verso era un’occasione per filosofare. 

In The Magnet, le attrazioni fatali della Natura, interpretate alla luce delle scoperte scientifiche del tempo (la relazione tra la Luna e le maree, il magnetismo) costituiscono lo spunto per invitare la propria amata a cedere alla forza di attrazione esercitata dall’amore. Ci sono già, in nuce, le Affinità elettive di Goethe, opera anch’essa ispirata dalla scienza, cioè dalle scoperte sull’affinità chimica, la proprietà degli elementi chimici di legarsi con determinate sostanze e non con altre.

mercoledì 18 luglio 2012

Crittografia e trigonometria nello Scarabeo d’oro di Poe


ResearchBlogging.orgCome ho riportato nella prima parte, dopo il successo dei suoi articoli sulla crittografia e la pubblicazione di un piccolo saggio sullo stesso argomento, Edgar Allan Poe decise di scrivere un racconto che contenesse un messaggio segreto e la sua decifrazione. Nel 1843 uscì Lo scarabeo d’oro (The gold bug), che ebbe subito un grande riscontro di pubblico e viene considerato come un classico esempio della scrittura dell’autore americano.

La storia, per chi non la conoscesse, si può sintetizzare come una caccia al tesoro sulla base di un messaggio cifrato. Il personaggio principale della storia è William Legrand, un uomo che vive in solitudine sull’isola di Sullivan, presso Charleston, nella Carolina del Sud. Provato da una serie di disgrazie e impoverito, Legrand, dal carattere misantropico e facile all’alternarsi di entusiasmi e depressioni, ha deciso di separasi dal mondo, accettando la compagnia del solo Jupiter, un ex schiavo liberato dalla sua famiglia e rimasto ad accudirlo per fedeltà e riconoscenza. Un giorno Legrand trova uno scarabeo di color oro brillante, ma lo presta a un militare. Quando il suo amico, il narratore della vicenda, lo va a trovare nella sua capanna la sera stessa, Legrand gli racconta del ritrovamento e disegna su un pezzo di carta l’aspetto dello straordinario insetto, ma l’amico non vede altro che un teschio. 


Per una serie di circostanze fortuite, Legrand scopre che il foglio, trovato nella sabbia da Jupiter e usato per avvolgere lo scarabeo, non è di carta, ma di pergamena. Esso contiene un messaggio cifrato scritto con l’inchiostro simpatico. Riscaldato leggermente, mostra questo aspetto: 



Circa un mese più tardi, Legrand manda Jupiter dall’amico, per recapitargli una lettera nella quale gli chiede di raggiungerlo immediatamente. Ne segue una spedizione notturna dei tre sulla terraferma, sulla quale tornerò più tardi, che porta alla scoperta del tesoro di Capitan Kidd, impiccato per omicidio e pirateria a Londra nel 1701, che una leggenda voleva avesse sepolto un tesoro sulla costa atlantica degli Stati Uniti. 


Tornati alla baracca di Legrand, questi spiega all’amico le circostanze del ritrovamento del messaggio e come era riuscito a decifrarlo e comprendere che esso forniva le indicazioni per localizzare il tesoro sepolto. Il teschio in alto a sinistra, simbolo della pirateria, costituisce una specie di sigillo, mentre il capretto è una specie di firma-rebus o geroglifica: kid, capretto; Kidd, il nome del pirata. Il testo tra i due simboli, comparso avvicinando la pergamena al fuoco, ha rivelato il suo segreto. Ascoltiamo le parole del protagonista: 


(…) «La soluzione non è per nulla difficile come la prima, frettolosa occhiata a questi segni potrebbe indurvi a credere. Questi segni, come ognuno può facilmente arguire, costituiscono un crittogramma: vale a dire, hanno un senso (…) e dubito che l'ingegnosità umana possa costruire un enigma che l'ingegnosità umana, applicandosi a fondo, non possa risolvere». (…) 

«Nel caso in questione, anzi, in tutti i casi di scrittura segreta, il primo problema riguarda la lingua del cifrato, poiché i criteri della soluzione, specie per quanto riguarda le cifre più semplici, dipendono dal genio del particolare idioma e variano a seconda di esso. (…) Ma, per quanto riguarda il nostro cifrato, la firma risolve ogni difficoltà. Il gioco di parole basato su Kidd non ha senso in nessuna lingua, tranne l'inglese». (…)

«Come potete osservare, non ci sono divisioni tra parola e parola. Se ce ne fossero state, il compito sarebbe stato relativamente facile. In tal caso, avrei cominciato con il confronto e l'analisi delle parole più brevi e, se fosse capitata una parola di una sola lettera, come è più che probabile (a o I, per esempio), avrei considerato la soluzione come certa. Ma, mancando una divisione, mio primo passo fu di accertare quali lettere ricorressero con maggiore frequenza e quali con minore frequenza. Fatti i conti, compilai la seguente tabella:

     Il carattere 8 ricorre 33 volte
»      »        ;     »      26   » 
»      »       4     »      19   » 
»      »       ‡     »      16   »   
»      »       )     »      16   » 
»      »      *     »      13   » 
»      »      5     »      12   » 
»      »      6     »      11   »
»      »      †     »       8   » 
»     »       1     »       8   » 
»     »       0     »       6   » 
»     »       9     »       5   » 
»     »       2     »       5   » 
»     »       :      »       4   » 
»     »       3     »       4   » 
»     »     3”     »       4   » 
»     »      ?      »       3   »
»     »      q     »        2   »
»     »      -      »       1   »
»     »      .      »       1   » 


«Ora, in inglese la lettera che ricorre più frequentemente è la e. Seguono nell'ordine a o i d h n r s t u y c f g l m w b k p q x z. In ogni caso, la e predomina a tal punto, che è raro trovare una frase, di qualsiasi lunghezza, in cui essa non sia la lettera più frequente». 


(…) «Poiché il segno predominante è 8, presupporremo, tanto per cominciare, che corrisponda alla e dell'alfabeto. Per verificare tale presupposto, vediamo se 8 si trova spesso in coppia, giacché in inglese le coppie di e sono assai frequenti, come per esempio nelle parole meet, fleet, speed, seen, been, agree ecc. In questo caso, lo ritroviamo raddoppiato ben cinque volte, sebbene il crittogramma sia breve». 


«Prendiamo dunque 8 come e. Ora, fra tutte le parole della lingua inglese, l'articolo the è la più frequente; vediamo perciò se non si presenti la ripetizione di tre caratteri, nello stesso ordine, l'ultimo dei quali sia 8. Se scopriamo tali ripetizioni, così ordinate, molto probabilmente rappresentano la parola the. Ora, se esaminiamo il cifrato, troviamo non meno di sette volte la serie ;48. Pertanto possiamo supporre che il segno ; rappresenti la lettera t, 4 la lettera h, e 8 la lettera e. Conferma, quest'ultima, della nostra ipotesi: e con ciò abbiamo fatto un gran passo avanti». 


«Ma avendo stabilito una parola, siamo in grado di stabilire un punto di estrema importanza: vale a dire, la fine e l'inizio di parecchie altre parole. Prendiamo, ad esempio, il penultimo caso in cui si presenta la serie ;48, non lontano dalla fine del testo. Noi sappiamo che il segno ; che segue immediatamente è l'inizio di una parola, e dei sei segni che seguono questo ;48 ne conosciamo cinque. Trascriviamo questi segni così, con le lettere che sappiamo li rappresentano, lasciando uno spazio vuoto per la lettera incognita: 
t eeth. 
Qui possiamo scartare subito il th che non fa parte della parola che incomincia con la prima t; giacché, provando con tutto l'alfabeto alla ricerca di una lettera che possa colmare la lacuna, ci accorgiamo che è impossibile comporre una parola di cui questo th faccia parte. Dovremo dunque limitarci a: 
t ee
e, ripassando l'alfabeto, se necessario, come già abbiamo fatto, arriviamo alla parola tree ("albero") come unica versione possibile. In tal modo otteniamo un'altra lettera, r, rappresentata da più due parole giustapposte: the tree». 


«Se guardiamo un po' più avanti, dopo queste parole, ritroviamo la combinazione ;48, che usiamo come terminazione di quanto immediatamente precede. Ne risulta, in quest'ordine: 
the tree;4(‡?34 the 
o, sostituendo le lettere rispettive quando esse ci siano note:
the tree thr...‡? 3h the


«Ora, se al posto dei segni che non conosciamo, lasciamo degli spazi vuoti, o mettiamo dei puntini, leggiamo: 
the tree thr... h the
da cui risulta evidente la parola through ("attraverso"). Ma questa scoperta ci fornisce tre nuove lettere: o, u, e g, rappresentate da ‡, ?, e 3».   

«Se ora esaminiamo attentamente il testo, in cerca di combinazioni di segni già noti, troviamo, non molto dopo l'inizio, questa serie: 
83(88, cioè egree, 
che è, ovviamente, la terminazione della parola degree ("grado") e che ci dà un'altra lettera, d, rappresentata da t». 


«Quattro lettere dopo la parola degree, troviamo la serie 
;46(;88
Traducendo i segni noti, e rappresentando i segni ignoti con puntini, come in precedenza, leggiamo: 
th. rtee., 
serie che immediatamente ci suggerisce la parola thirteen ("tredici") e che ci fornisce altre due lettere, i e n, rappresentate da 6 e da *».  


«Riportandoci ora all'inizio del crittogramma, troviamo la combinazione 
53 ‡‡† 
Traducendo come prima, otteniamo good ("buono"), che ci dà la certezza che la prima lettera è a, e che le due prime parole sono A good ("Un buon")». 


«Ad evitare confusioni, dobbiamo ora disporre per ordine in una tabella tutte le "chiavi" finora trovate. E la tabella è questa: 
5 rappresenta a 
†        »          d 
8        »          e
3        »          g 
4        »          h
6       »          i 
*        »          n
‡        »          o 
(        »           r 
;        »           t
?       »           u 

«Vi troviamo rappresentate non meno di undici delle lettere più importanti; mi sembra perciò superfluo, per quanto riguarda la soluzione, entrare in altri dettagli. Ho detto abbastanza per convincervi che crittogrammi di questa natura sono di agevole soluzione, e per darvi un'idea del carattere razionale del procedimento. Ma tenete presente che il crittogramma che abbiamo davanti appartiene alla specie più semplice. Non mi resta ora che darvi la traduzione completa del testo della pergamena, come l'ho decifrato. Eccolo: 


"A good glass in the bishop's hostel in the devil's seat twenty-one degrees and thirteen minutes northeast and by north main branch seventb limb east side shoot from the left eye of the death's head a beeline from the tree through the shot fifty feet out" 

"Un buon vetro nell'ostello del vescovo sulla sedia del diavolo ventuno gradi e tredici minuti nord-est quarta di nord tronco principale settimo ramo lato est calare dall'occhio sinistro della testa di morto una linea d'ape dall'albero attraverso la palla cinquanta piedi in là"».

Con un procedimento analogo all’analisi della frequenza delle lettere, Legrand ricostruisce anche la punteggiatura della frase, sull’assunto che i caratteri sono più accostati dove l’autore sta pensando a una pausa. La frase diventa: 

"Un buon vetro nell'ostello del vescovo sulla sedia del diavolo - quarantun gradi e tredici minuti - nord-est quarta di nord - tronco principale settimo ramo lato est - calare dall'occhio sinistro della testa di morto - una linea d'ape dall'albero attraverso la palla cinquanta piedi in là." 

Ora il problema non è più di crittografia, ma di interpretazione del linguaggio. Legrand comprende che “vetro” indica un cannocchiale, mentre gli altri termini oscuri sono nomi locali per indicare alcune caratteristiche topografiche, che gli consentono di individuare l’area tra i boschi dell’entroterra dove cercare, sulla base delle coordinate, un albero tra i cui rami è nascosto un teschio. Dalla verticale dell’occhio sinistro del teschio, individuata facendo cadere una palla da fucile, si deve tracciare una "linea d'ape", cioè una linea retta, dal punto più vicino del tronco attraverso la "palla", e di qui prolungata per cinquanta piedi. Quello è il luogo in cui scavare. 

Facciamo, come promesso, un passo indietro, a prima dell’illustrazione da parte di Legrand di come ha decifrato il codice segreto del pirata. La narrazione della localizzazione del sito dove scavare nel bosco è condotta da Poe con maestria. C’è persino un primo scavo inutile, dovuto a un errore del povero Jupiter, che, montato sull’albero e trovato il tronco con il teschio, confonde la destra con la sinistra e fa cadere lo scarabeo, usato come filo a piombo, dall’occhio sbagliato. L’impresa sembra fallire, ma un ripensamento di Legrand lo conduce a trovare l’errore del suo servitore. Un nuovo tentativo, questa volta condotto davvero dall’occhio sinistro, porta poi al successo del secondo scavo e al ritrovamento del tesoro. Poe drammatizza l’errore del servitore, che è costato un inutile scavo di oltre due ore ai tre cercatori. Ma siamo sicuri che sia stato così grave? 

Non ne è affatto convinto Eric Talvila, del Dipartimento di Matematica e Statistica della canadese University of the Fraser Valley, Abbotsford, il quale sostiene, in un articolo che comparirà su Mathematical Gazette, che semplici considerazioni trigonometriche dimostrano che i due luoghi di scavo potevano tranquillamente sovrapporsi.

Nel luogo indicato dalla mappa, Legrand ha individuato con il cannocchiale il grande albero, un liriodendro (albero dei tulipani), sul quale c’è un teschio. Legrand ordina a Jupiter di salire. Arrampicandosi fino a 70 piedi, egli giunge al settimo ramo sul lato est dell’albero, dove i pirati avevano fissato un teschio umano. Jupiter fa cadere lo scarabeo d’oro attraverso l’orbita dell’occhio destro. Allora i tre scavano in un punto situato a 50 piedi di distanza dall’albero nella direzione indicata dall’allineamento albero-scarabeo. Lo scavo ha un diametro di 4 piedi ed è profondo 5. Ma non trovano alcun tesoro. Legrand si accorge dell’errore del servitore e fa ripetere l’operazione facendo cadere lo scarabeo dall’occhio sinistro, che giunge a terra a 2 pollici e mezzo di distanza dalla precedente posizione. La nuova direzione porta a individuare un nuovo luogo di scavo. 

Nonostante Poe affermi che i due luoghi di scavo erano distanti diverse iarde, Talvila sostiene che con un po’ di trigonometria si giunge invece alla conclusione che i due scavi fossero parzialmente sovrapposti. Facciamo riferimento alla figura.


I punti indicati nella figura sono O (centro dell’albero), a (punto di caduta attraverso l’occhio sinistro), b (punto di caduta attraverso l’occhio destro), A (primo luogo di scavo), B (secondo luogo di scavo). Le distanze sono r (raggio del tronco dell’albero), L (distanza di ciascun occhio del teschio dal tronco), rA (raggio del primo scavo), rB (raggio del secondo scavo). Tutte le distanze sono indicate in piedi, come nel racconto (un piede equivale a 30,48 cm, si indica con ft oppure con , ed è suddiviso in 12 pollici, in oppure ′′, e corrisponde a 1/3 di iarda, yd). L’angolo AOB è 2θ

Legrand afferma che i punti a e b sono distanti 2.5′′, cioè 5/24′. Le distanze aA e bB misurano 50′. Notiamo che sen θ = 5/[48(r + L)]. La distanza tra i centri degli scavi è: 

AB = 2(r + L + 50) sen θ = 5(r + L + 50) / 24(r + L

La condizione che I due scavi non si sovrappongano è che AB >  rA + rB. Perciò:

r + L < 250 / 24(rA + rB) − 5 

Sappiamo dal racconto che rA = 2′. Il narratore afferma che rB è poco di più. Anche ponendo che r= 2′, per non avere sovrapposizione degli scavi bisognerebbe ottenere r + L < 250/91'' = 2′ 9′′. Ciò è chiaramente impossibile. Poe ha scritto un bellissimo racconto, ha usato le sue conoscenze crittografiche, ma, per il matematico canadese, non ha fatto i compiti di trigonometria, perché i due scavi sono talmente vicini da sovrapporsi.

Erik Talvila (2012). Trigonometry of The Gold-Bug to be published in Mathematical Gazette arXiv: 1206.1761v1