domenica 24 dicembre 2017

Newton, Pitagora e la Prisca Sapientia


È curioso che la maggior parte degli uomini che parteciparono alla rivoluzione scientifica, i contributi dei quali sembrano così originali e innovativi, erano convinti di stare semplicemente riscoprendo il grande corpus di sapienza originaria (Prisca Sapientia) che era stata posseduta dagli antichi, e che era andato perduto o dimenticato durante i secoli. Questa credenza non era del tutto inventata, perché le grandi opere, sia materiali, sia intellettuali, delle civiltà classiche erano (e, in qualche misura, sono) davvero impressionanti (basti pensare alle conoscenze scientifiche di epoca ellenistica messe in luce da Lucio Russo nel prezioso saggio La rivoluzione dimenticata).

La cultura intellettuale dell'Occidente europeo declinò realmente dopo la caduta di Roma, e le istituzioni in grado di preservare e trasmettere la conoscenza, così come l’attitudine a farlo, furono fortemente ridotte. Perciò, dopo una così lunga assenza, quando si riscoprirono gli antichi testi, gli umanisti e poi gli intellettuali del Rinascimento e dei secoli successivi erano consapevoli della loro inferiorità di fronte agli “antichi”. Inoltre, il fatto che molti degli antichi testi erano disponibili solamente in forma frammentaria, spesso come traduzioni di terza mano, e molti dei riferimenti fossero a opere totalmente sconosciute e presumibilmente perse, contribuì alla credenza che gli antichi avessero saputo molto di più, se solo avessimo potuto scoprirlo.

Questa attitudine rispetto al passato è, in qualche maniera, l’esatto opposto dell’idea che abbiamo oggi, che è quella di una sequenza totalmente ordinata di epoche che sono progredite da una minore conoscenza nel passato a una maggiore nel futuro. È difficile per noi immaginare il clima intellettuale tra persone che pensavano (sapevano) di essere scientificamente e matematicamente inferiori ai loro antenati di un lontano passato, di cui bisognava riscoprire i segreti.

In realtà il cammino della scienza moderna, almeno nei suoi secoli iniziali, è stato tutt’altro che lineare, essendo la mentalità scientifica una delle componenti di un’incredibile accozzaglia di idee, concetti e teorie razionali, semi-razionali, moderatamente originali o del tutto folli, che spesso convivevano in una stessa figura di erudito o filosofo naturale. Anche la biografia di tanti matematici del tempo presenta aspetti fortemente contraddittori, così pervasi di mentalità magica assieme a intuizioni e opere geniali.

Siamo poi abituati a considerare così assodate certe conoscenze da ignorare o dimenticare quanto queste nascano da un lungo processo di tentativi ed errori, da uomini per loro natura incoerenti e viventi in società e tempi contraddittori, così ci stupiamo di come uomini di grande valore potessero elaborare le loro straordinarie scoperte e contemporaneamente credere in idee sbagliate, coltivare passioni bizzarre, auspicare la realizzazione di sogni messianici. Esemplare è, a questo proposito, la figura di Nepero (John Napier), che inventava i logaritmi ma li considerava un passatempo di fronte alla sua grande missione di rovesciare il papa di Roma (che, tanto per cambiare, considerava l'Anticristo).

Inoltre, il valore immutato del sapere che ci era giunto, e quella sorta di immortalità che esso dava ai suoi autori, che erano sopravvissuti a un millennio e più di oblio solo per suscitare meraviglia quando erano infine riscoperti, fu una fonte di fascino immenso, e inevitabilmente indusse gli uomini a partecipare al processo, anche se solo (all’inizio) con la traduzione e la copiatura delle grandi opere.

Tra le figure più ammirate dell’antichità spicca Pitagora, oggetto di un mito duraturo, iniziato già ai tempi in cui era attiva la sua scuola a Crotone nel VI secolo a. C. e proseguito nel corso dei secoli attraverso fonti disparate che avevano tramandato le facce di un enigmatico semidio: sciamano, taumaturgo, mago, ierofante, ma anche matematico, fisico, riformatore morale e politico. Per quanto Pitagora fosse originario di Samo, parlasse greco e agisse nelle colonie greche dell’Italia meridionale (la Magna Grecia), i filosofi di Crotone e Taranto, anch’essi di stirpe greca, che ne avevano riportato e sviluppato gli insegnamenti furono designati da Aristotele come Italici. I Latini sfruttarono l’ambiguità della definizione di “scuola italica” a scopi patriottici, utilizzando anche la variante del racconto che attribuiva al filosofo origini etrusche. In quel contesto si ebbe persino la fusione della leggenda pitagorica con quella di Numa Pompilio, il re-sacerdote e riformatore romano che sarebbe stato allievo di Pitagora (mentre era vissuto un secolo e mezzo prima dello sbarco del filosofo in Calabria).

Il mito pitagorico fu tramandato attraverso gli scritti di Aristotele (che però contestava l’idea pitagorica che tutto in natura è numero, e che i numeri sono cause delle cose) e, in chiave più mistica ed esoterica (che privilegiava i detti oracolari, la dottrina dell’anima e della reincarnazione, il simbolismo arcano dei numeri, l’idea di un’Anima Mundi che governasse tutte le cose terrestri e celesti), dai filosofi neoplatonici e anche da alcuni autori cristiani. I frammenti biografici e dottrinali giunti dai tempi immediatamente successivi al fiorire della scuola pitagorica furono integrati da un vasto insieme di leggende, che andarono a infoltire la letteratura e il mito del filosofo di Samo, deformandolo e falsificandolo, spesso con evidenti contraddizioni tra una fonte e l’altra.


Parzialmente dimenticato dopo la fine dell’antichità, il mito pitagorico ebbe una nuova fioritura nei decenni centrali del Quattrocento, quando il revival neoplatonico, originato dalla diaspora bizantina precedente e successiva al crollo dell’Impero d’Oriente (1453) e dall’arrivo di una gran mole di opere greche, portò con sé anche la rivalutazione di colui che, a torto, era considerato maestro del filosofo ateniese al pari di Socrate. Marsilio Ficino (1433-1499) e Pico della Mirandola (1463-1494) furono tra gli umanisti italiani che più contribuirono al rinnovarsi del mito. Per Ficino esisteva una lunga catena iniziatica che comprendeva Zoroastro, Ermete Trismegisto, Orfeo, Pitagora, Platone e infine Plotino. La sapienza di questi maestri, frutto della rivelazione divina, fu nascosta al volgo sotto il velo di favole e misteri, fu poi rivelata da Cristo, ma di nuovo perduta dopo di lui. Nella prefazione alla sua traduzione delle opere di Plotino, scriveva:
“Era costume degli antichi teologi occultare i misteri divini con numeri e figure matematiche, o con finzioni poetiche, per non divulgarli a caso”
e il vincolo della segretezza e della trasmissione orale della conoscenza in uso nella setta pitagorica ben si adattava a questa opinione.

Pico attuò invece un’audace sintesi tra le teorie numerologiche di origine pitagorica e la Kabbalah ebraica, aprendo la strada a tutte le interpretazioni cabalistiche cristiane delle Scritture e alle elucubrazioni numerologiche e angeliche dei due secoli successivi (da Johannes Reuchlin a John Dee e, in misura minore, Giordano Bruno). Nel pitagorismo Pico indicò la chiave della numerologia mistica, musicale, simbolica, ben distinta, secondo Platone, dalla matematica volgare “del mercante”. Fu in questi ambienti che emerse l’idea della distinzione tra numero numerante e numero numerato, cioè tra il numero considerato in chiave simbolica e mistica, origine e mistero della realtà, e quello, profano, utilizzato nei calcoli e nelle misure.

La scoperta, ai primi del Cinquecento, della soluzione generale delle equazioni polinomiali di terzo grado viene considerata da alcuni come un punto di svolta significativo nella storia della scienza, perché fu la prima volta che un uomo “moderno” fece una scoperta scientifica che andò oltre la conoscenza degli antichi. Nacque così la prospettiva stuzzicante di “migliorare” gli antichi e ciò fu un incentivo incredibilmente potente per fare nuove scoperte. Non sorprende che Galileo Galilei (1564-1642), esponente di un nuovo clima intellettuale, tracci una netta linea di demarcazione tra matematica e numerologia, relegando quest’ultima tra le pseudoscienze. Così leggiamo nel Dialogo sui massimi sistemi (1632) la risposta sferzante di Salviati (che esprime le idee di Galileo stesso) alle argomentazioni del pedante Simplicio:
SIMPLICIO. Par che voi pigliate per ischerzo queste ragioni: e pure è tutta dottrina dei Pittagorici, i quali tanto attribuivano a i numeri; e voi, che siete matematico, e, credo anco, in molte opinioni filosofo Pittagorico, pare che ora disprezziate i lor misteri.

SALVIATI. Che i Pittagorici avessero in somma stima la scienza de i numeri, e che Platone stesso ammirasse l’intelletto umano e lo stimasse partecipe di divinità solo per l’intender esso la natura de’ numeri, io benissimo lo so, né sarei lontano da farne l’istesso giudizio; ma che i misteri per i quali Pittagora e la sua setta avevano in tanta venerazione la scienza de’ numeri sieno le sciocchezze che vanno per le bocche e le carte del volgo, non credo io in veruna maniera.
La magia pitagorica dei numeri non ebbe più corso presso la cerchia dei matematici di punta del Seicento (Cavalieri, Wallis, Cartesio, Leibniz, Fermat, ecc.), i quali dimenticarono il misticismo dei numeri interi per gli algoritmi da applicare a vecchi e nuovi campi di indagine: la quadratura delle curve, il calcolo delle tangenti, le tecniche del calcolo infinitesimale.

L’eredità pitagorica, sotto questo punto di vista, restò estranea agli sviluppi della matematica, che riprendeva piuttosto una serie di problemi lasciati insoluti da altri autori: Archimede, Apollonio, Euclide, Pappo. Tuttavia, la fascinazione per la Prisca Sapientia continuò a operare. Ancora alla fine del Seicento uomini come Pierre de Fermat (1601-1665) sviluppavano le loro idee originali sotto forma di “ricostruzioni” speculative di opere perdute dell’antichità. Fermat portò a compimento una ricostruzione dell’opera perduta di Apollonio di Perga sui Luoghi piani, portando direttamente allo sviluppo di ciò che oggi chiamiamo geometria analitica (non mancò una disputa sulla primogenitura tra lui e Cartesio). John Wallis (1616-1703) scrisse che la progressione distintamente criptica di molte delle presentazioni di Archimede gli sembrava:
“Come se ci fosse il proposito stabilito di coprire le tracce delle sue ricerche, come se avesse voluto negare ai posteri il segreto del suo metodo di indagine, mentre desiderava ottenere da essi l’assenso ai suoi risultati. Non solo Archimede, ma quasi tutti gli antichi nascosero così ai posteri il loro metodo di Analisi (anche se è chiaro che ne avevano uno), che i matematici più moderni trovarono più facile inventare una nuova analisi che cercare di trovare la vecchia”.
Cartesio (1596-1650), nella quarta delle sue Regulae, andò oltre, e cominciò a mettere in dubbio la sapienza degli antichi:
“Abbiamo prove sufficienti che gli antichi geometri facevano uso di una certa “analisi” che applicarono per la risoluzione dei loro problemi, sebbene, come sappiamo, essi celarono ai loro successori la conoscenza di questo metodo. (…) Sono convinto che certi semi primordiali di verità seminati dalla natura nelle nostre menti umane, semi che sono soffocati in noi a causa della lettura e dell’ascolto, giorno dopo giorno, di così tanti diversi errori, hanno avuto una tale vitalità in quel grezzo e semplice mondo antico che la luce della mente (…) consentì loro di riconoscere le idee vere nella filosofia e nella matematica, sebbene essi non fossero ancora capaci di ottenere una vera padronanza di esse (…) Questi scrittori, sono propenso a credere, con una certa astuzia nociva, tennero i segreti di questa matematica per se stessi”.
Come si vede, anche quando persisteva l’idea di una antica sapienza nascosta, i riferimenti non erano più a Pitagora, ma ad altri autori. Il mito pitagorico sarebbe veramente finito nell’oblio se non fosse stato sorprendentemente recuperato dal maggior matematico di quel periodo, Isaac Newton (1642-1727).



La prima versione dei Principia mathematica, intitolata De mundi systemate, scritta in modo divulgativo nel 1686 e mai data alle stampe, si apre in questo modo solenne:
“La più antica opinione dei Filosofi era che le stelle fisse stavano senza muoversi nelle parti più alte del Mondo, e che i pianeti giravano attorno al Sole sotto queste stelle; che allo stesso modo la Terra viene mossa in un corso annuale, così come con un moto giornaliero intorno al proprio asse, e che il Sole, o cuore dell’Universo, resta fermo al centro di tutte le cose. Questa era infatti la credenza di Filolao, di Aristarco di Samo, di Platone nei suoi anni più maturi, della setta dei Pitagorici, e (molto più antichi di questi), di Anassimandro e del più saggio dei re dei Romani, Numa Pompilio. Quest’ultimo eresse un tempio a Vesta, di forma circolare, e ordinò che vi bruciasse al centro un fuoco perpetuo, a simboleggiare la forma rotonda dell’Orbe con il fuoco solare al suo centro”.
Come si vede, egli era chiaramente influenzato dalla tradizione che attribuiva ogni tipo di sapere e conoscenza segreta agli “antichi”, non solo quella matematica. Ma c’è di più.

Tra il febbraio 1693 e i primi mesi del 1694, Newton si mise nei panni del filologo classico per dimostrare, a suo modo, una tesi nobile, e cioè che gli antichi filosofi avevano intuito due millenni prima di lui la fisica matematica e la meccanica celeste esposte nella prima edizione dei Principia mathematica (1687). Attente letture di decine di autori antichi e dei loro commentatori lo avevano convinto che i veteres avevano compreso i fondamenti dell’astronomia gravitazionale. Non aveva forse scritto Plutarco nel De facie Lunae che, secondo i filosofi, la Luna è un satellite della Terra, anzi un’altra Terra, così come lo sono tutti gli altri pianeti? Democrito e Lucrezio non avevano confermato che questi centri di gravità si attraggono reciprocamente?

Newton, nei cosiddetti Scolii classici, passa a interpretare una serie di testimonianze su Pitagora, al quale attribuisce la scoperta della legge dell’inverso dei quadrati. La formula, scrive, è implicita nella divinizzazione pitagorica del Sole come “carcere di Giove”, definizione che nasconde la “grandissima forza d’attrazione con la quale tiene prigionieri i pianeti nelle loro orbite”. E l’antica metafora di Pan, che suona e modula il mondo come uno strumento musicale, va interpretata come l’armonia cosmica dell’Anima Mundi: il mondo, che è il tempio di Dio, obbedisce a una legge matematica semplice e suprema, che fa sì che i corpi si attraggono secondo una forza direttamente proporzionale alle loro masse e inversamente proporzionale alle loro distanze.

Non ancora soddisfatto, l’inglese prende in considerazione la scala musicale pitagorica e cita il celebre aneddoto della scoperta degli intervalli musicali. Secondo la versione di Macrobio, Pitagora verificò nell’officina di un fabbro la legge di corrispondenza tra i vari accordi, la lunghezza delle corde e i pesi che le sollecitano. Newton evita di accennare al fatto che Pitagora parlava di numeri interi e pare che ignori volutamente la confutazione attuata da Keplero nel III libro dell’Harmonice Mundi (1619), secondo la quale gli intervalli consonanti dipendono da quantità continue, geometriche, e non dai numeri [naturali] che sono quantità discrete. Newton si limita a interpretare l’aneddoto in chiave simbolica, per cui Pitagora avrebbe conosciuto la legge dell’inverso dei quadrati e
“applicò ai cieli e in tal modo apprese l’armonia delle sfere (…) intendendo l’armonia dei cieli nel senso che i pesi dei pianeti verso il sole (verso il quale tutti danzano come al suono della lira) sono reciprocamente come i quadrati delle loro distanze”
L’inglese, tra i suoi contemporanei, fu uno degli ultimi a esprimere l’idea che essi avessero nascosto la loro scienza sotto metafore e immagini mitiche. Soprattutto, fu il solo a scegliere Pitagora come suo predecessore in fisica e matematica.

Le considerazioni filologiche di Newton, destinate a commentare una serie di proposizioni di dinamica celeste del III libro dei Principia, rimasero allo stato di abbozzi manoscritti e non furono mai pubblicate. Si potrebbe osservare che, così facendo, egli si mostrò restio a farli conoscere. Eppure decise di affidare questi scolii all’astronomo e matematico scozzese David Gregory (1661-1708) perché ne divulgasse il contenuto. Così le considerazioni su Pitagora comparvero nella trascrizione che ne fece Gregory presentando uno dei primi manuali di astronomia newtoniana, gli Astronomiae physicae et geometricae elementa (1702), pubblicato in inglese nel 1726.



Come tutti gli uomini dei suoi tempi, come tutti gli uomini, anche il più grande scienziato della sua epoca dimostra che si può essere geniali e allo stesso tempo legati a pregiudizi e idee pseudoscientifiche. La sua interpretazione di retroguardia non ebbe conseguenze in campo matematico, ma ravvivò ancora per qualche tempo il mito dell’antica sapienza italica, soprattutto ad uso dell’orgoglio patriottico dei filosofi e dei politici italiani, sino al nazionalismo risorgimentale e all’epoca fascista.

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Questo articolo è comparso sul numero 01/2017 di Archimede, la rivista per gli insegnanti e i cultori di matematiche pure e applicate.

lunedì 11 dicembre 2017

“Pietroburgo” e il paradosso di Banach-Tarski.

La copertina dell'edizione di Adelphi

Come far passare la voglia di costruire ponti


Il moscovita Andrej Belyj, pseudonimo di Boris Nikolaevic Bugaev (1880-1934), è stato un poeta e romanziere, teorico del movimento simbolista in Russia nei primi decenni del ‘900. La sua opera più nota è il romanzo Pietroburgo, inizialmente pubblicato a puntate tra il 1913 e il 1914 e poi in forma rivista e abbreviata nel 1922 (la prima edizione italiana comparve da Garzanti nel 1961, con traduzione e saggio introduttivo di Angelo Maria Ripellino, e fu poi riedita nel 2014 da Adelphi). Secondo Vladimir Nabokov (1899-1977), Pietroburgo fa parte dei quattro più grandi capolavori del ventesimo secolo, accanto a l’Ulisse di Joyce, a La Metamorfosi di Kafka e Alla ricerca del tempo perduto di Proust. Nonostante tale prestigioso elogio, l’opera ha diviso la critica: a Trotsky non piacque, e altri non apprezzarono il suo stile modernista, le metafore insistite, l’atmosfera cupa e apocalittica. Per saperne di più invito a leggere la splendida recensione che scrisse Pietro Citati quando l’opera fu pubblicata da Adelphi.

La critica più recente (Citati lo accenna) ha messo in evidenza l’utilizzo frequente nel testo dell’immaginario matematico, il che non sorprende se si pensa che Belyj, oltre a essersi laureato in scienze naturali, era figlio di Nikolai Bugaev (1837-1903), allievo di Weierstrass e Liouville, fondatore della scuola matematica di Mosca, una delle più attive sullo scenario europeo del Novecento. Inoltre, suoi compagni di Università erano stati due studenti del padre: Nikolai Luzin (1883-1950), che avrebbe retto la scuola matematica moscovita per molti anni, e Pavel Florenskij (1882-1937), figura geniale del milieu spiritualista russo, matematico, prete ortodosso, scrittore, scienziato, filosofo e mistico. Anche Belyj fu a lungo influenzato da questo contesto, approdando all’antroposofia di Rudolf Steiner.

Una delle più ricorrenti immagini presenti in Pietroburgo è quella di una sfera che si espande e alla fine esplode. Ecco alcuni esempi, tratti dai pensieri del protagonista, Nikolaj Apollonovic Ableuchov:
“Il suo cuore prese a martellare e si espanse, mentre nel suo petto crebbe la sensazione di una sfera cremisi sul punto di rompersi in pezzi”
“la sua anima stava diventando la superficie di un’enorme bolla in rapida crescita, che si era gonfiata fino all’orbita di Saturno. Oh, oh, oh! Nikolaj Apollonovic fu percorso da brividi. Venti soffiarono sulla sua fronte. Tutto stava esplodendo”
Questa metafora è stata interpretata in vari modi, dall’ansia per una catastrofe imminente, personale o collettiva, a un simbolo della bomba che il protagonista si è impegnato a utilizzare per conto di un gruppo rivoluzionario contro il proprio padre, odiato e decrepito funzionario imperiale Apollon Apollonovic Ableuchov. Mancava, pensate un po’, un’ardita interpretazione matematica, che due ricercatori americani, Noah Giansiracusa e Anastasia Vasilyeva dello Swarthmore College (PA) hanno pubblicato il 16 ottobre scorso in un paper su ArXiv (From Poland to Petersburg: the Banach-tarski Paradox in Bely’s modernist novel).

Secondo i due autori, esiste un collegamento tra l’immagine della sfera in espansione e il cosiddetto paradosso di Banach-Tarski, che fu pubblicato una decina d’anni dopo la prima versione del romanzo (nel 1924). La sfera che si espande sarebbe in collegamento con il famoso, paradossale, teorema dei due matematici polacchi Stefan Banach e Alfred Tarski, di cui mi sono occupato in un articolo precedente, secondo il quale, applicando l’assioma della scelta, si può suddividere una sfera piena (una palla) nello spazio tridimensionale in 5 parti, in modo che sia possibile ricomporre con questi pezzi due sfere entrambe perfettamente identiche alla sfera iniziale prima della suddivisione. Una versione analoga dimostra che è possibile suddividere una sfera piccola (ad es. una pallina da golf) in modo tale che i pezzi ottenuti, una volta assemblati, possano ricomporsi in una sfera più grande, magari delle dimensioni di Giove.

Il teorema di Banach Tarski: la sfera iniziale viene suddivisa e poi ricomposta in due copie identiche a se stessa
Giansiracusa e Vasilyeva si chiedono se Belij possa essere stato influenzato da versioni originarie del teorema, giunte chissà come dalla Polonia a Mosca, o addirittura se la lettura di Pietroburgo possa aver ispirato Banach e Tarski. Essi stessi ammettono che la risposta è “probably not,” nondimeno si preoccupano di tracciare gli sviluppi storici che potrebbero aver creato queste coincidenze. La premessa contenuta nell’Abstract iniziale merita una citazione:
“Belij credeva nelle corrispondenze spirituali e nelle predizioni mistiche, così, allo stesso modo, esploriamo anche le (talvolta sorprendenti) coincidenze che uniscono Pietroburgo al paradosso di Banach-Tarski. Questo articolo è la vera storia, parte storia e parte mistero, di un legame improbabile tra matematica e letteratura”.
Belij durante il viaggio in Sicilia nel 1905
Dopo questa allarmante premessa, l’articolo procede affrontando il teorema da un punto di vista matematico, poi analizzando il contesto in cui nacque (il dibattito sui risultati di Cantor, sull’assioma della scelta e la nascita della cosiddetta Scuola Polacca) e l’ipotetico “ponte” che sarebbe stato rappresentato dalla forzata permanenza a Mosca di Waclaw Sierpinski (1882-1969), il quale, allora insegnante a Lublino e già famoso specialista degli insiemi cantoriani e paradossi geometrici, allo scoppio della Prima guerra mondiale (1914), si trovava in Russia con la famiglia. Poiché sia l’impero austriaco sia quello russo tentavano di utilizzare la questione polacca come arma politica, egli fu arrestato e internato in un campo di prigionia, ma poco dopo fu liberato grazie all'intervento dei matematici russi Dmitrij Egorov e Nikolaj Luzin (amico di Belij). Sierpinski trascorse così gli anni della guerra a Mosca, collaborando soprattutto con Luzin, fino a quando tornò in Polonia nel 1918.

Ora, il fatto che Luzin conoscesse sia Belij sia Sierpinski è un legame talmente lasco che Giansiracusa e Vasilyeva sono costretti ad ammettere che “le somiglianze (...) tra le sfere in espansione nell’opera di Belij e di Banach-Tarski sono semplicemente una coincidenza”, anche perché compaiono già nelle prime versioni di Pietroburgo, date alle stampe, come si è detto, prima dell’arrivo a Mosca di Sierpinski e, giova ripeterlo, assai prima del 1924, anno in cui comparve lo storico teorema di Banach e Tarski. Ce ne sarebbe abbastanza per alzare bandiera bianca e ritirarsi dopo un’onorevole sconfitta. Invece no. I due autori dell’articolo si fanno allora esperti in analisi del testo (per fortuna non in senso strutturalista: ci mancava anche quello), ma per riportare alcuni brani di Pietroburgo che presenterebbero somiglianze con il teorema e - udite! udite! - “alcune previsioni e coincidenze che riguardano Belij e che altri studiosi hanno notato”. Il brano più significativo è questo:
“Una bomba è una rapida espansione di gas. La sfericità dell’espansione evocò in lui un terrore primordiale, a lungo dimenticato. Nella sua fanciullezza era stato soggetto a deliri. Nella notte, una piccola bolla elastica si materializzava talvolta di fronte a lui e rimbalzava intorno - fatta forse di gomma, forse della materia di strani mondi. [...] Gonfiandosi orribilmente, spesso assumeva la forma di un grasso compagno sferico. Questo grasso compagno, essendo diventato una sfera molesta, continuava a espandersi, espandersi ed espandersi e minacciava di precipitare addosso a lui. [...] Ed esplodeva in pezzi. Nikolenka incominciava a gridare cose senza senso: di incominciare anche lui a diventare sferico, che era uno zero, che tutto in lui si stava azzerando - azzerandO - zerO - O - O”.
E allora? Dov’è la sfera che si decompone in cinque parti e si duplica? Dove sono queste parti composte da insiemi di punti, che in realtà non possiedono alcuna misura? Queste nuvole di punti senza numero, senza volume, sono riconoscibili nell’accenno allo zero che si ritrova nel brano citato? Non ci sono, ma esistono invece, nell’ultima sezione dell’articolo, delle “coincidenze cosmiche”:
- il rivoluzionario doppiogiochista che consegna al protagonista la piccola bomba preparata per assassinare il padre si chiama Lippanchenko. Ebbene, Belij dichiarò di aver modellato la sua figura su quella dell’agente provocatore Evno Fishelevich Azef, che aveva lavorato sia per gli zaristi e i rivoluzionari. Più tardi Azef si rifugiò a Berlino e, dopo la pubblicazione di Pietroburgo, assunse proprio lo pseudonimo di Lipchenko!
- il sole svolge un ruolo importante nel pensiero antroposofico, e Belij morì nel 1934 per un’insolazione contratta in Crimea!
- la sfera di Banach-Tarski viene suddivisa in cinque parti, e ci sono almeno cinque frasi nel romanzo (riportate) in cui si cita il numero cinque in un contesto geometrico!

Con l’argomentum numerologicum termina l’articolo di Giansiracusa e Vasilyeva e il vostro recensore si chiede se i due ci sono o ci fanno. Ci troviamo di fronte ad un livello infinitamente inferiore alla “manifesta ciarlataneria” che Sokal imputava agli strutturalisti francesi e ai loro seguaci americani. Posso augurarmi che si tratti di un gioco perverso, ma vedo nelle note che un articolo simile i due l’hanno già pubblicato sulla rivista Math. Intelligencer. Su queste basi, per questa volta, mi tocca dar ragione a quell’amico che continua a dire che tra scienza e umanesimo non esiste alcun ponte, nessun periglioso “passaggio a Nord-Ovest”, ma solo un abisso profondo e insuperabile come il Grand Canyon.



(scritto con la penna intinta nel veleno durante la prima nevicata d’inverno)

lunedì 20 novembre 2017

Euclide in Cina


Nel 1582 un gruppo di missionari gesuiti condotto da Matteo Ricci (1552-1610) entrò in Cina, con lo scopo di evangelizzare quel lontano paese. I cinesi non erano tuttavia molto propensi a convertirsi a questa nuova e straniera religione e i missionari scoprirono che questi presunti "pagani" erano un popolo altamente civilizzato. L'obiettivo della conversione sarebbe stato lungo e difficile. I missionari si stabilirono, impararono la lingua cinese e adottarono molti costumi locali. Anche se non erano interessati al sapere religioso che questi europei portavano con sé, i dirigenti cinesi furono incuriositi dalle abilità tecniche e scientifiche possedute dai gesuiti.

Pur essendo istruito in teologia, ciascun gesuita possedeva anche una formazione accademica nelle arti e nelle scienze del tempo. Accettati come sapienti, i Gesuiti furono ammessi nel 1601 nei circoli della corte dei Ming, dove insegnarono ai cinesi in vari campi, tra cui la riforma del calendario, l'astronomia, la cartografia, la gittata dei cannoni e la matematica. Matteo Ricci tradusse in cinese i testi della matematica occidentale che aveva portato con sé. Assistito da Xu Guangqi, alto funzionario della burocrazia imperiale, nonché scienziato, studioso di agricoltura ed astronomo, nel 1607 Ricci iniziò a tradurre gli Elementi di Euclide. Il testo che utilizzarono fu il commentario latino redatto nel 1574 da Cristoforo Clavio, maestro di Ricci al Collegio Romano, gli Euclidis elementorum libri XV, che era il testo euclideo più facilmente reperibile in Europa. Ricci e Xu intrapresero la traduzione e la trascrizione dei primi sei libri degli Elementi. La loro opera, Yuan rong jioa yi (Trattato sulla Geometria), fu pubblicata a Pechino nel 1607. Nella sua prefazione, Ricci si indirizzava al pubblico cinese, dicendo:
"[Gli Elementi] procedono dai dettagli evidenti a quelli particolari, dal dubbio alla certezza. Ciò che appare inutile è utilissimo, in quanto è il fondamento di tutto. [Gli assiomi e i postulati] sono la forma fondamentale delle miriadi di forme, il risultato di cento scuole di sapienza".
Il testo conteneva diciotto proposizioni. La sfera e il suo volume erano trattati come un esempio della perfezione divina. I gesuiti sostenevano ancora il concetto di un universo strutturato in sfere concentriche e tentarono di promuovere questa idea tra i cinesi, ma gli astronomi di corte la rifiutarono. Notando che tutto sulla Terra ha una forma, il testo proseguiva spiegando le proprietà di cerchi, poligoni, rettangoli e del triangolo equilatero. La sfera era promossa come l'oggetto geometrico che possiede il volume più grande. Mentre alcuni studiosi cinesi trovarono affascinante è utile il metodo deduttivo di ragionamento, il Trattato sulla Geometria ebbe solo un impatto limitato sulla matematica cinese. Xu voleva tradurre tutta l'opera di Clavio, preoccupato per la gravità della crisi degli studi matematici cinesi iniziata alla fine del XIV secolo. Due secoli dopo, molti dei principali risultati della ricerca matematica risultavano incomprensibili alla maggior parte degli intellettuali cinesi. Xu attribuiva le cause di questa situazione all’abbandono delle pratiche del calcolo da parte degli studiosi, al legame fortissimo che nella cultura popolare intercorreva tra matematica e pratiche divinatorie, per cui la numerologia mistica squalificava tutta la scienza matematica, e, infine, alla difficoltà dei testi della letteratura matematica, che usavano un linguaggio assai lontano da quello contemporaneo. Ricci, tuttavia, forse volendo prima vedere l'effetto del loro lavoro, si rifiutò, sperando che qualcun altro completasse il progetto. La traduzione fu completata solo nel 1875, quando l'erudito Li Shanlan e un traduttore occidentale, Alexander Wyle, tradussero i libri rimasti degli Elementi.


Xu, nel testo “Varie riflessioni sugli Elementi di Geometria”, mostrò tutto il suo entusiasmo per la riscoperta di questa scienza e la comprensione del suo carattere e significato. Egli elogiò la sua lucidità e la sua coerenza logica, la modestia intellettuale e le virtù morali. Inoltre replicava a coloro che lamentavano lo stile asciutto della traduzione consigliando di studiarla con impegno per dieci giorni e prediceva che entro cento anni tutto il mondo l’avrebbe studiata. Xu informava nelle note che, dopo la pubblicazione del 1607, circolavano due copie riviste in manoscritto, la seconda delle quali redatta da Ricci prima della morte. Questa copia, rivista da Xu e dai gesuiti Diego Pantoja e Sabatino De Ursis, fu stampata a Pechino intorno al 1611.

Nel 1644 cadde la dinastia Ming, sostituita dai Qing, fondata dai manciuriani invasori. Una missione gesuita rimase alla corte imperiale. L’imperatore Kangxi era interessato alla civiltà dell’Occidente, particolarmente alla scienza e alla matematica. Scelse allora due missionari francesi, Jean Francois Gerbillon e Joachim Bouvet, il futuro corrispondente di Leibniz sul sistema binario e lo I-Ching, per insegnargli queste discipline. Essi pensarono che la Geometria di Xu e Ricci fosse troppo complicata per fini didattici e intrapresero una loro personale traduzione degli Elementi.

Per questo scopo utilizzarono gli Elements de geometrie (1671) del gesuita francese Ignace Gaston Pardies (1636-1673). Costui aveva rotto con la tradizione e, in aggiunta all’opera di Euclide, aveva introdotto nel suo testo anche idee di Archimede e Apollonio. La traduzione di Gerbillon e Bouvet, Ji he yuan ben [Gli Elementi di Geometria], fu completata nei primi anni ‘90 del Seicento.


sabato 7 ottobre 2017

La matematica come struttura letteraria: la combinatoria

Negli anni fecondi delle neoavanguardie letterarie, nella prima metà degli anni ’60, si cominciò a teorizzare l’applicazione di concetti matematici per la costruzione di testi letterari, poetici o in prosa, in modo che la matematica, da oggetto di letteratura, ne diventasse la struttura. Nel corso degli anni sono state esplorate decine di applicazioni diverse, come il calcolo combinatorio, la teoria degli insiemi o la teoria dei grafi. Inoltre lo sviluppo di quelli che allora si chiamavano calcolatori elettronici favorì la nascita dei primi esperimenti ipertestuali. In queste righe ci occuperemo in particolare delle opere basate sulla combinatoria.

Il poeta, romanziere e saggista Nanni Balestrini, già al suo esordio letterario (1961), scrisse Tape Mark 1, una “poesia combinatoria composta con l’ausilio di un calcolatore elettronico” IBM, pubblicata nell’Almanacco Letterario Bompiani del 1962. Il testo si compone di 15 elementi ripresi da opere già esistenti, il Diario di Hiroshima di Michilito Hachiya, Il mistero dell’ascensore di Paul Goldwin e il Tao Te King di Laotse, e costituiti da sintagmi a loro volta formati da 2 o 3 unità metriche e contraddistinti da un codice di testa e uno di coda a indicare le possibilità sintattiche di legame. Da questo materiale è stata tratta dal calcolatore una poesia di sei strofe di sei versi ciascuna con ogni verso di 4 unità metriche; ciascuna strofa risulta formata da una diversa combinazione parziale del testo (10 elementi per volta), con minimi interventi grammaticali e di punteggiatura apportati alla fine. Il risultato, voluto secondo i canoni estetici dell’autore, è un’opera in cui i normali rapporti sintattici sono stravolti o aboliti. Ecco la prima strofa:

La testa premuta sulla spalla, trenta volte
più luminoso del sole, io contemplo il loro ritorno
finché non mosse le dita lentamente e, mentre la moltitudine
delle cose accade, alla sommità della nuvola
esse tornano tutte, alla loro radice, e assumono
la ben nota forma di fungo cercando di afferrare.


Immagine di Andrea Valle
Più noti e meno ostici sono I Cent mille milliards de poèmes di Raymond Queneau (1961), che offrono un dispositivo di lettura combinatoria a base di linguette intercambiabili sulle quali sono scritti uno per uno i versi di un insieme di dieci sonetti (con 14 versi ciascuno). Ciò perché l’autore ha scritto i sonetti con le stesse rime e con una struttura grammaticale tale che ogni verso è intercambiabile con ogni altro verso situato nella stessa posizione. In termini matematici si tratta di una disposizione con ripetizione con n=10 e k=14, per un totale di 1014 combinazioni (centomila miliardi, appunto). Così, a seconda di una qualsiasi delle eventuali scelte, è possibile leggere sonetti come quelli di cui si propone come esempio la prima strofa:

(da http://www.parole.tv/cento.asp , dove un generatore automatico permette di ottenere tutti i 1014 sonetti di Queneau)
Nelle “Istruzioni per l'uso” poste a introduzione del suo libro, Queneau sostiene un po’ compiaciuto che “Calcolando 45" per leggere un sonetto e 15" per cambiare la disposizione delle striscioline, per otto ore al giorno e duecento giorni all'anno, se ne ha per più di un milione di secoli di lettura. Oppure, leggendo tutta la giornata per 365 giorni l'anno, si arriva a 190.258.751 anni più qualche spicciolo (senza calcolare gli anni bisestili e altri dettagli)” (ora in Segni, cifre e lettere e altri saggi, Einaudi, Torino, 1981).



Nella prefazione alla prima edizione dei Cent mille milliards de poèmes, il matematico François Le Lionnais (ora nell’opera collettiva La letteratura potenziale - Creazioni Ricreazioni Ri-creazioni, Bologna, Clueb, 1985) coniò la formula “letteratura combinatoria” per collocare l’opera di Queneau, definendola come l’insieme delle pratiche letterarie in cui l’opera non fissa a priori l’ordine dei brani di testo che la compongono, ma ne dispone anzi la ricombinazione secondo procedimenti formalizzati. In questo modo, l’opera combinatoria non viene letta, ma giocata: nel puzzle della “letteratura combinatoria” il fruitore trova delle tessere di partenza, che può smontare e rimontare a piacere seguendo le “regole del gioco” indicate. Al lettore non viene più chiesto solo un lavoro di interpretazione o d'immaginazione, ma, a seconda dei casi, un'attività di costruzione o di coproduzione del testo stesso. Il lettore interagisce, viene condotto a manipolare un dispositivo che produce ciò che gli è dato da leggere, e due lettori non leggeranno forse mai lo stesso testo. Questo gioco del fare letterario delega così al lettore una parte rilevante della funzione di autore.

Ancor più radicale di quella di Queneau è la scelta di Marc Saporta, che nel romanzo Composizione n. 1 riduce il testo ad una sequenza di frammenti che possono essere letti in un ordine qualsiasi. Ogni pagina descrive una scena in cui agisce un personaggio. In questo caso la libertà del lettore è totale, perché egli può leggere il testo disponendo come crede l’ordine delle pagine. Per questo scopo, le pagine del romanzo, non numerate, sono separate fisicamente le une dalle altre, e stampate solo sul recto, mentre il verso è bianco. La fascetta che tiene unite le pagine riporta la frase: “TANTI ROMANZI QUANTI SONO I LETTORI. L’ordine delle pagine è casuale: mescolandole, a ciascuno il “suo” romanzo” (Marc Saporta, Composizione n. 1, Lerici, Genova, 1962). Nella prefazione all’edizione originale francese, Saporta avverte: “Il lettore è pregato di mescolare queste pagine come un mazzo di carte. Di tagliare, se lo desidera, con la mano sinistra, come si fa da una cartomante. L’ordine con il quale le pagine usciranno dal mazzo orienterà il destino di X. Infatti il tempo e l’ordine degli avvenimenti regolano la vita più che la natura degli avvenimenti stessi”. In questo caso si tratta di una permutazione di 143 pagine, gli elementi, per cui le possibili combinazioni sono date da 143! = 2,69 × 10245, numero che giustifica la successiva considerazione: “Una vita si compone di elementi multipli, ma il numero delle possibili combinazioni è infinito”.



Ogni pagina è un elemento a sé stante. Evidentemente non c’è una trama lineare: l’impressione è che i frammenti di testo si presentino così come affiorano nella testa di X, il protagonista, alla maniera di ricordi strappati dal terapeuta alla mente di un paziente. Per fortuna una qualche sorta di lasco legame c’è: i personaggi ricompaiono, certe scene sono simili ad altre, certe situazioni sembrano ripetersi, in qualche caso si sovrappongono. La scelta di Saporta fa sì che Composizione n°1 sia il tipico libro in cui succede poco. Poiché le pagine devono poter essere lette in ogni combinazione possibile, è come se ciascuna di esse dovesse essere abbastanza indefinita da non vincolarne troppo il senso. Il lettore che si aspetta il racconto di una storia, che cerca la sicurezza di parametri di riferimento spazio-temporali precisi, rimane deluso. Il libro va preso per quello che è: un serio esperimento anticipatorio, il cui solo godimento, che è quello di comporre i pezzi di un puzzle, è penalizzato dal supporto cartaceo, l’unico disponibile quando fu scritto.

La differenza tra i due testi risiede nel grado di libertà che è concessa al lettore, che a sua volta è funzione del congegno combinatorio adottato. Nei Cent mille milliards des poèmes la struttura testuale è suddivisibile in classi di elementi combinabili secondo un ordine stabilito, con una logica che il matematico oulipiano Claude Berge ha definito esponenziale, mentre in Composizione n. 1 le combinazioni (permutazioni) tra i frammenti sono totalmente affidate al caso, con una logica fattoriale. Lo schema illustra le due strutture:


Queneau, Le Lionnais e Saporta erano tutti francesi. E in Francia nel 1960 proprio i primi due avevano fondato l’organismo di ricerca sperimentale OuLiPo (Ouvroir de Littérature Potentielle), al quale avrebbero poi aderito Perec e Calvino. È da questo gruppo di matematici con passioni letterarie e uomini di lettere con l'amore per i numeri che il fantasma della combinatoria ha cominciato ad aggirarsi nel mondo letterario.

Sin dalla fondazione, le regole del gruppo furono così enunciate: “Definiamo letteratura potenziale la ricerca di nuove forme e strutture che potranno essere utilizzate dagli scrittori nella maniera che più gli piacerà”. “Potenziale” si riferisce a qualcosa che esiste in potenza nella letteratura, cioè che si trova all'interno del linguaggio e che non è stato necessariamente esplorato. Strumento prediletto per lo studio e la produzione è la contrainte, una restrizione formale arbitraria che possa creare nuovi procedimenti, nuove forme e strutture letterarie suscettibili di generare poesie, romanzi, testi. Fra le numerose definizioni dell'Oulipo fornite dagli stessi membri, una è assai elegante e significativa: “Un Oulipiano è un topo che costruisce il labirinto da cui si propone di uscire più tardi”. Queneau spiegava spesso che alcuni suoi lavori potevano sembrare semplici passatempi, semplici jeux d'esprit, ma ricordava che anche la topologia o la teoria dei numeri nacquero, almeno in parte, da quella che una volta si chiamava "matematica divertente".

Nanni Balestrini tornò nel 1966 alla letteratura combinatoria, questa volta in prosa, con il “romanzo” Tristano, e le virgolette sono più che giustificate. Si tratta infatti di un testo, che nulla ha a che fare con l’archetipo del romanzo d’amore suggerito dal titolo. Composto da dieci capitoli, a loro volta composti da venti paragrafi di frasi tratte da testi già esistenti (atlanti, romanzi rosa, giornali, guide turistiche, manuali), in cui le convenzioni del romanzo sono sovvertite, è il tutto a generare la frase, o meglio a rivelare il meccanismo di scrittura. Ogni frase compare due volte in due diversi capitoli, cambiando senso a seconda del contesto, e spesso la giustapposizione di questi elementi fa vacillare il significato e i consueti riferimenti spazio-temporali. Inoltre alcune delle frasi inserite sono volutamente ambigue, potendo riferirsi alla vicenda descritta o al dispositivo di scrittura in maniera autoreferenziale:

“Ma in certi casi è necessario per impedire che la vicenda continui a svilupparsi introdurre elementi che servano ad arrestarla e giustifichino la ripetizione”.

“Niente obbliga a finire una frase essa è infinitamente catalizzabile vi si si può sempre aggiungere qualcosa”.

“La questione non è tanto la storia in sé bensì quali effetti può produrre quali sviluppi quali dinamiche innescare”.

“Le combinazioni sono infinite. Tutte le storie sono diverse una dall’altra. È tutto come un gioco”.

Un nome proprio, indicato con la lettera C (non puntata) fa riferimento di volta in volta a un personaggio femminile, a uno maschile, a un luogo, o a tutto ciò che porta un nome, volendo sottolineare come ogni elemento sia realtà intercambiabile, sia cioè funzione di C in base a leggi che il lettore deve, più che indovinare, imporre al testo. Non si tratta certamente di una lettura agevole! Le tecnologie dell’epoca consentirono nel 1966 la pubblicazione di uno solo dei 1,09 × 1014 libri differenti potenzialmente generati dal dispositivo di scrittura adottato. La nascita della stampa digitale e il printing on demand consentono ora al lettore di avere una copia fisica del libro unica e sua personale, diversa da tutte le altre. La riedizione di Tristano attuata nel 2007 consiste di diecimila copie uniche, ciascuna caratterizzata da un codice alfanumerico di 6 caratteri.

Un altro scrittore affascinato dalle possibilità della combinatoria è stato Italo Calvino, che aderì all’Oulipo nel 1973 durante il suo lungo soggiorno parigino, anche se da tempo aveva mostrato interesse per i rapporti tra lettere e scienza. Le concezioni oulipiane influenzano la struttura di alcuni dei suoi ultimi libri, in particolare de Il castello dei destini incrociati, di cui ebbe a dire che si trattava di una macchina "per moltiplicare le narrazioni partendo da elementi figurali dai molti significati possibili come può essere un mazzo di tarocchi". In effetti, come spiega lo stesso autore nella postfazione, la spinta alla stesura del testo che dà il nome all’opera venne dall’invito dell’editore Franco Maria Ricci a scrivere un commento per la lussuosa edizione di un mazzo di tarocchi del XV secolo noto come Tarocchi Viscontei. Le suggestioni evocate dalle splendide illustrazioni delle lame hanno spinto Calvino a congegnare dodici storie, a ciascuna delle quali l’autore ha posto in chiusura la sequenza di carte utilizzata per raccontarla. Le infinite possibilità della combinatoria sono rappresentate per lo scrittore da “questo quadrilatero di carte che continuo a disporre sul tavolo tentando sempre nuovi accostamenti non riguarda me o qualcuno o qualcosa in particolare, ma il sistema di tutti i destini possibili, di tutti i passati e i futuri, è un pozzo che contiene tutte le storie dal principio alla fine tutte in una volta”.

Nell’opera, alcuni personaggi, resi muti da un incantesimo, raccontano la propria avventura allineando su un tavolo dei tarocchi. La prima carta estratta da ciascuno dei commensali è fondamentale, perché si identifica con il personaggio e ne rappresenta il destino. Questi utilizza poi sedici carte (che estrae dal mazzo o trova già disposte da altri), che, sistemate in due colonne o righe, rappresentano l’effettivo svolgimento della storia. Dal meccanismo combinatorio delle diverse disposizioni scaturisce una matrice di racconti, leggibile in ogni direzione.

Nella figura è illustrata la disposizione delle carte sul tavolo. Come esempio sono evidenziate quelle che determinano i primi due racconti, cioè Storia dell’ingrato punito (con bordo rosso) e Storia dell’alchimista che vendette l’anima (con bordo blu). Le carte iniziali sono numerate.


Alcuni commentatori hanno fatto notare come Il castello non rispetti fino in fondo il meccanismo combinatorio adottato: le carte utilizzate sono 73, mentre l’intero mazzo dei tarocchi ne comprende 78 (22 arcani maggiori più 56 arcani minori). Se Calvino ha sacrificato delle carte alle esigenze combinatorie dello schema, non si comprende allora perché ne abbia utilizzata una in più del necessario, quella indicata con il fondo grigio.

La letteratura combinatoria meriterebbe una trattazione più ampia, per non dire “infinita”. Non abbiamo parlato delle sue radici (dai trovatori provenzali a Mallarmé); delle restrizioni formali mutuate dalla matematica inventate dagli oulipiani, delle opere anticipatrici di un grande scrittore come Jorge Luis Borges, del capolavoro La vita: istruzioni per l’uso di Georges Perec, e di molto altro ancora. Con la combinatoria ci vuol pazienza.

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Questo articolo è comparso sul numero 03/2016 di Archimede, la rivista per gli insegnanti e i cultori di matematiche pure e applicate.

venerdì 1 settembre 2017

La predestinazione di Durval (Galois secondo Leo Perutz)


Nato a Praga da una agiata famiglia ebreo-tedesca di commercianti, lo scrittore Leo Perutz (1882-1957) aveva studiato calcolo delle probabilità, statistica, matematica attuariale ed economia politica e trovò lavoro come statistico attuariale in una società d'assicurazione di Vienna (come altri austro-ungarici, da Kafka a Svevo, arrivati alla narrativa dalla scrivania). Nella capitale imperiale incominciò a frequentare i circoli e i caffè letterari. Nel 1906 pubblicò il suo primo racconto e, nel marzo 1907, la sua prima novella. Come statistico attuariale, Perutz avrebbe anche lasciato un contributo scientifico degno di nota, studiando i tassi di mortalità, pubblicando articoli su riviste specialistiche e ricavando la cosiddetta formula di equivalenza di Perutz, relazione che sarebbe stata a lungo utilizzata nel settore. Per tutta la vita lo scrittore si interessò di matematica, che ebbe un ruolo chiave nella costruzione della sua opera letteraria. 

Era sulla trentina allo scoppio della Grande Guerra, nel 1914. Arruolato nell'esercito austro-ungarico, partì tra i primi per il fronte orientale, ma fu ferito quasi subito e rimpatriato. Quegli anni videro i suoi primi successi letterari: i racconti brevi Il terzo proiettile, del 1915, e Il miracolo dell’albero di mango, dell’anno successivo, scritto assieme a Paul Frank, dal quale fu tratto anche un film nel 1921. Il successo continuò dopo la guerra, quando pubblicò una serie di racconti e novelle storico-fantastici come Il Marchese di Bolibar (1920), il bestseller Il Maestro del Giudizio Universale (1923), Turlupin (1926) e Tempo di spettri (1928). Giunto all’apice della carriera, la sua esistenza subì un tracollo. La morte della moglie, nel 1928, gli provocò una grave crisi. Si risposò nel 1934, poco prima che l’Anschluss dell’Austria alla Germania nazista lo costringesse a una vita d’esilio. Nel 1938 trovò rifugio in Palestina, dovendo ricominciare tutto daccapo, a disagio in un ambiente di cui non comprendeva la lingua e, da laico non praticante, le idee. Dopo la guerra tornò in Austria nel 1950, ma il pubblico sembrò essersi dimenticato di lui. Nel 1953 pubblicò la novella di ambientazione praghese Di notte sotto il ponte di pietra, mentre la sua ultima opera, Il Giuda di Leonardo, uscì postuma nel 1959, due anni dopo la sua morte avvenuta a Bad Ischl nel 1957. 

Trascurato dalla critica per decenni, ci fu chi lo considerò uno scrittore di avventure bizzarre, un po’ Salgari un po’ Balzac. In Italia, come fece notare Oreste Del Buono, Ladislao Mittner nella prima edizione della sua Storia della letteratura tedesca non lo citava nemmeno nell'indice dei nomi. Fu riscoperto negli anni ’70 del Novecento, quando Borges curò la pubblicazione di alcune sue opere in Argentina e, da noi, incominciarono le traduzioni uscite presso Adelphi. Corrado Augias ha scritto che “Una delle ragioni per le quali Perutz è stato trascurato potrebbe nascondersi proprio nella difficoltà di capire che razza di scrittore fosse, cioè di dare ai suoi romanzi una collocazione sicura all' interno d'un genere riconoscibile”. Né giallista, né scrittore di noir, né troppo realista né troppo fantastico, secondo Augias 
“Leo Perutz sembra, in conclusione, un vero scrittore d'avventure, uno di quei narratori da feuilleton nei quali questi vari generi si ritrovano e s'intrecciano e dove pagine di alta scrittura si alternano ad altre più di maniera. Un narratore, insomma, capace di costruire con immensa abilità d'artigiano e alta resa drammatica, una storia intorno a dei personaggi e a una trama abilmente calcolata. Uno degli elementi comuni a tutti i suoi romanzi, è il ruolo giocato dal destino sullo sviluppo dei fatti e la vita dei protagonisti. Il nocciolo dei suoi racconti gira attorno a un uomo prigioniero d'una ossessione, cioè un fanatico, col quale il destino si diverte a giocare un po', prima d'assestargli il colpo conclusivo”. 
Proprio questo è il tema dominante di Il giorno senza sera (Der Tag ohne Abend), un racconto breve pubblicato nel 1930 nella raccolta Signore, abbi pietà di me (Herr, erbarme dich meiner). Secondo i diari di Perutz, egli scrisse questa storia in preda a una sorta di “furor” nell’arco di cinque giorni nel novembre 1924. Questo estro (che ricorda il Furor mathematicus che dà il titolo a una raccolta di Leonardo Sinisgalli del 1944) si riflette nell’atteggiamento del protagonista, Georges Durval, affetto da una vera e propria esplosione di creatività matematica, evidentemente ispirato alla biografia degli ultimi mesi di vita di Évariste Galois. Perutz non parla direttamente del matematico francese, collocando le vicende nel 1912 e spostandole da Parigi a Vienna, ma, anche se Durval non è affatto un rivoluzionario o un matematico “per vocazione”, il nucleo della storia è evidente a chi è familiare con la storia della matematica e con la biografia di Galois. 

Il riferimento a Galois si accompagna già dal titolo a un'altra significativa circostanza: gli scritti di Agostino d’Ippona. “Il giorno senza sera” è il dies sine vespera che si trova nelle Confessioni (XIII, 36, 51) e che conferisce un senso profondamente filosofico e teologico alla storia. Ecco il passo: 
“Ma il settimo giorno è senza sera e non ha tramonto. L'hai santificato per farlo durare eternamente. Il riposo che prendesti al settimo giorno, dopo compiute le tue opere assai buone, benché niente turbasse la tua quiete, è una predizione che ci fa l'oracolo del tuo Libro: noi pure, dopo compiute le nostre opere, buone assai per tua generosità, nel sabato della vita eterna riposeremo in te”. 

Il racconto di Perutz trasforma i riferimenti alla leggenda di Galois e alla meditazione teologica agostiniana sulla Genesi in una riflessione che parte dal senso (o il nonsenso) della storia controfattuale ("che cosa sarebbe successo se...") e termina stabilendo i confini tra la conoscenza e creazione umana e quella divina. Così, la cronaca romanzata, meta-biografica sulla fine di Durval/Galois evolve in una cronaca romanzata, filosofica, sulla condizione umana. 

La struttura dell’opera è articolata in ordine cronologico in sette parti (come i giorni della creazione), che nella prima edizione erano suddivise graficamente da asterischi. La trama è abbastanza semplice: Georges Durval è un dandy dai molti interessi, che pratica in modo dilettantesco e improduttivo, tra i quali gli scacchi, la musica e la matematica. Il suo stile di vita prosegue immutato fino a quando, come dichiara il narratore, “il fato e la predestinazione di Georges Durval si ricordarono di lui”

La svolta avviene la sera del 14 marzo 1912, quando un suo commensale in un ristorante lo insulta per futili motivi e poi lo sfida a duello. Mentre la sfida viene rimandata di alcune settimane, Durval è colto da una “particolare inquietudine” e incomincia a occuparsi sempre più di matematica. I suoi studi matematici presto lo coinvolgono completamente, spezzando i suoi precedenti legami con la società. 

L’ossessiva attività matematica continua persino quando arrivano i suoi secondi, la mattina del duello, il 25 aprile 1912, e poi durante la preparazione dello stesso (il trasferimento fino alla località prescelta, il tentativo di riconciliazione, le ultime istruzioni). Durval è interessato solo ai suoi problemi matematici. Alla fine i duellanti sparano, e il narratore afferma laconicamente: “Questo giorno non ebbe sera”, rivelando così la morte del protagonista. Nell’ultima parte dell’opera, Perutz fornisce un commento in cui accenna, da un lato, ai fatti successivi (la pubblicazione postuma degli scritti di Durval da parte di una “società accademica”) e, dall’altro lato, a una possibile interpretazione della storia: 
“La storia di Georges Durval doveva essere raccontata. Certe volte ho l’impressione che possa fornire una comprensione degli eventi del mondo. Si può discutere se i grandi della scienza, dell’arte o della letteratura (…) che morirono giovani avessero potuto aggiungere anche solo una riga alle loro opere, se la morte li avesse risparmiati. Può darsi che il destino chiama solamente coloro che non hanno più niente da dare, che, alla fin fine, sono finiti, vuoti, e consumati”. 
Queste considerazioni sono degne di nota per molti motivi. Il narratore le introduce per interrompere improvvisamente la narrazione, per rivelarsi come il narratore in prima persona e usurpare il lettore della sua propria interpretazione. In effetti, altri racconti di Perutz contengono commenti interpretativi finali, ma in questo caso non c’è semplicemente la rivelazione della morale, e neppure un semplice riferimento all’esemplarità storico-filosofica delle vicende narrate. Piuttosto, attraverso il caso specifico di Durval/Galois, Perutz chiama in causa la pratica degli scenari controfattuali, la domanda che le vite dei “grandi morti giovani” sembrano suscitare. 

Che cosa sarebbe successo se Galois non fosse morto così giovane? Pensieri di questo tipo sono sempre affiorati nella letteratura su Galois che Perutz sfida, invitando a una discussione più approfondita. Liouville, che aveva raccolto e fatto conoscere le opere di Galois, sostenne nel 1846 che se non ci fosse stato quel tragico duello, il giovane matematico avrebbe potuto espandere le scienze matematiche in modi interessanti. Felix Klein era convinto che Galois avrebbe potuto aprire nuove strade che il mondo non poteva neanche immaginare. Entrambi erano convinti della linearità storica e della crescita cumulativa del sapere matematico, che singoli tragici eventi possono rallentare ma non fermare. In questo contesto le domande controfattuali sembrano lecite, anche se nulla aggiungono alla conoscenza storica. 

Più scettico sull’immaginazione controfattuale riguardante la vita non vissuta di Galois fu lo storico della scienza George Sarton che, nella sua biografia del 1921, considerava simili speculazioni totalmente inutili. Piuttosto pensava che l’immortalità del matematico francese risiede proprio nella brevità della sua esistenza terrena. Perutz sembra concordare in parte con Sarton, anche se l’arma narrativa che possiede in più dello storico gli consente una maggior libertà di esprimere le sue idee, che i critici hanno contrassegnato come “una visione fatalistica della storia”, secondo la quale “caso e necessità” coincidono in modi che sembrano assurdi all’osservatore umano. 

In Il giorno senza notte queste idee ricevono una declinazione particolare, collegata sia ai riferimenti biografici a Galois, sia al contesto teologico delle idee agostiniane sulla creazione e la predestinazione. Perutz trae da Agostino non solo il titolo, ma anche la struttura narrativa in sette parti in cui si articola il racconto. 

Ciò che il narratore identifica come l’intervento del destino e la “predestinazione” di Georges Durval è quanto il protagonista stesso prova come una spinta interna di cui si ssente completamente succube. Dopo che il suo interesse per i problemi matematici è stato risvegliato, egli sperimenta eccitazione e una “particolare inquietudine” la cui origine non risiede nei suoi timori sull’incipiente duello. Egli si sente come se fosse eccitato da un “demone” (“la fureur des Mathématiques le domine”, come ebbe a dire il professore di Galois) e trova pace e temporaneo conforto solamente nell’attività matematica. La matematica lo aveva interessato anche in precedenza e talvolta aveva varcato i confini della “matematica superiore” pensando, come ci informa il narratore, “alla rettificazione di famiglie di curve isotermiche” attraverso “l’espansione del teorema di Picard”. Contrariamente alla maggior parte dei biografi di Galois, Perutz sembra essere indifferente alle idee politiche del protagonista. Durval è dominato dal suo furor mathematicus, il solo interesse cui si dedica prima del duello: 
“Il suo momento era la sera. Una profonda lucidità lo coglieva tutte le sere alla luce della lampada, portandogli la percezione di collegamenti nascosti. In quei momenti lavorava con quieta maestria, gli occhi sullo scopo”. 

La descrizione di Perutz della creatività matematica poco si discosta dal diffuso stereotipo del matematico socialmente isolato, concentrato per intero sul suo lavoro, che scorda anche la situazione di pericolo in cui si trova. Contemporaneamente, Perutz consente al Durval di “maturare”, con una chiara eco dell’idea agostiniana di una pace interiore (“nel sabato della vita eterna riposeremo in te”) raggiunta attraverso l’esercizio contemplativo e intellettuale dopo una giovinezza sprecata negli eccessi. Per Durval, dopo essere stato sfidato a duello, l’avventura che aveva in precedenza cercato nella vita sociale sembra aver perso ogni traccia di fermento, soppiantata dall’avventura spirituale che trova nella matematica, nel regno “dei punti singolari” delle curve di Cayley e della “teoria delle equazioni differenziali”

Durval raggiunge il suo “scopo”. Lavora sui suoi problemi matematici letteralmente fino al suo ultimo respiro: poco prima di partire per il duello, butta giù “formule algebriche” sul retro di uno “scontrino di lavanderia”, approfitta di una fermata della carrozza per scrivere “un lungo sviluppo in serie sul tavolo di marmo” di un locale, e chiede persino al testimone “un pezzettino di carta” sul quale spera di scarabocchiare qualche idea dell’ultimo minuto. Il riferimento alle leggende che circondano l’ultima notte di Galois è inequivocabile. La descrizione di Perutz non è inferiore in drammaticità, in quanto Durval non smette mai di far calcoli. La narrazione parallela degli eventi del duello e dei pensieri matematici, entrambi sempre più concitati e prossimi alla conclusione, raggiunge il suo climax: 
“I secondi misurarono la distanza. Indifferente a quanto stava accadendo attorno a lui, Georges Durval stava presso la parete di legno che delimitava l’area del duello e faceva calcoli. Il secondo aveva caricato le pistole… In quel momento Georges Durval si girò. Con il pezzo di carta ancora in mano, camminò verso il Capitano Drescovich [uno dei suoi padrini]. Il suo viso mostrava pace e completa indifferenza. Aveva portato a termine il suo lavoro”. 

Con questo gesto Durval conferma dal proprio punto di vista la teoria del narratore che segue immediatamente: “il destino chiama solamente coloro che non hanno più niente da dare, che, alla fin fine, sono finiti, vuoti, e consumati”. Durval aveva completato il percorso assegnatoli dal destino attraverso la soluzione del suo problema matematico, così che la pace e l’indifferenza che prova nonostante l’incombente duello, che contrastano con il precedente disordine della sua vita e il furore matematico, si possono pienamente giustificare con il completamento della sua creazione. La sua progressiva rinuncia agli interessi mondani in favore della contemplazione matematica trova qui il suo definitivo epilogo. Ciò nonostante, la catena di pensieri persiste nella sua testa. Appena dopo aver raggiunto la soluzione, inizia a pensare a una riformulazione più elegante della sua idea e pensa di rifletterci la sera: 
“La formula può essere facilmente suddivisa in una parte reale e una immaginaria, disse Durval a se stesso. Ci deve essere un altro tipo di soluzione, più elegante. Ad ogni modo, stasera, quando…” 
Due spari interrompono questi pensieri e il narratore smentisce il suo eroe caduto: “Questo giorno non ebbe sera”

Durval ha completato il cammino a cui era predestinato, tuttavia la sua opera creativa rimane incompleta e, in un certo senso, non può essere completata. In effetti egli ha dato solo un piccolo e incompleto contributo al complesso del sapere matematico, che progredisce con il tempo e nel tempo e rimane tutt’altro che finito e completabile. Durval lo comprende nel momento stesso in cui giunge la morte: ci deve essere ancora “un altro tipo di soluzione, più elegante”. Perutz sottolinea l’impressione di incompletezza con un ultimo cenno a quanto Durval lascia dietro di sé. I curatori della pubblicazione del suo archivio non potranno mai ammirare la sua soluzione completa: 

“Quando la sua opera sarà disponibile, raccolta in 10 volumi, anche allora rimarrà un incompiuto. Il suo lavoro finale non sarà mai trovato. Esso è distribuito tra il retro di uno scontrino di lavanderia, il tavolo di marmo di un caffè e un foglietto di taccuino, disperso nel vento”.




Albrecht, A. "The Day Without Evening: Leo Perutz, Evariste Galois, and Augustine,"
Journal of Humanistic Mathematics, Volume 2, Issue 1 (January 2012), pages 2-21.
DOI: 10.5642/jhummath.201201.03.

martedì 29 agosto 2017

La Grande Muraglia di Kafka (e Cantor)


"Durante la costruzione della muraglia cinese" (Beim Bau der chinesischen Mauer) è una raccolta di racconti postumi di Franz Kafka il cui titolo deriva da uno di loro, così come sono stati editi dall’amico Max Brod nel 1931. In Italia ha avuto tre edizioni: Racconti, a cura di Ervino Pocar, I Meridiani Mondadori, Milano 1970; Schizzi, parabole, aforismi, a cura di Giuliano Baioni, Mursia, Milano 1983; Il silenzio delle sirene. Scritti e frammenti postumi 1917–24, a cura di Andreina Lavagetto, Feltrinelli, Milano 1994.

Il racconto che dà il titolo alla raccolta fu scritto nel 1917, e, purtroppo, non è concluso. Esso inizia con la descrizione delle strane modalità di costruzione del gigantesco manufatto, delle quali la voce narrante azzarda alcune spiegazioni. Ecco l’incipit, nella traduzione che ho tratto dalla rete.
La muraglia cinese è stata terminata nel suo cantiere più settentrionale. La costruzione fu condotta da sud-est e da sud-ovest, e qui ebbe luogo l’unificazione. A questo sistema di frazionamento ci si attenne in piccolo anche nell’ambito dei due grandi eserciti di operai, l’esercito dell’est e quello dell’ovest. Avvenne così, vennero formati gruppi di circa venti operai i quali avevano da erigere una frazione di muraglia della lunghezza di circa cinquecento metri, incontro a loro un gruppo adiacente edificava poi una muraglia della stessa lunghezza. Dopo però che l’unificazione era effettuata, la costruzione, al termine di questi circa mille metri, non veniva proseguita, anzi, i gruppi di lavoro erano inviati in tutt’altre regioni a edificare la muraglia. Naturalmente risultarono in questo modo molte grosse lacune, che soltanto poco a poco, lentamente, vennero colmate, parecchie addirittura soltanto dopo che si era proclamato il completamento della costruzione della muraglia. Anzi, ci devono essere lacune che proprio non sono state chiuse, secondo molti esse sono molto più estese delle frazioni costruite, un’affermazione del resto che appartiene forse solo alle numerose leggende che sono sorte intorno alla costruzione e che non sono verificabili da parte delle singole persone, almeno, non con i loro occhi e con il loro metro, in conseguenza dell’estensione della costruzione. Ora, si crederebbe a priori che sarebbe stato in ogni senso più vantaggioso costruire in modo continuo o almeno in modo continuo entro le due frazioni principali. La muraglia fu sì pensata, come viene in genere divulgato, ed è noto, con scopo di difesa dai popoli del nord. Come poteva tuttavia difendere, una muraglia discontinua? Di più, una tale muraglia poteva non soltanto non difendere, la stessa costruzione è costantemente in pericolo. Queste frazioni di muraglia abbandonate possono anzi sempre di nuovo esser distrutte con facilità dai nomadi, tanto più che costoro, una volta messi in stato di angoscia dalla costruzione della muraglia, ad una velocità misteriosa, come cavallette, cambiavano d’insediamento, e per questa ragione forse possedevano una visione d’insieme dell’avanzamento della costruzione migliore di quella che avevamo noi stessi costruttori. Ciò nonostante la costruzione non poteva certo esser condotta altrimenti che come è avvenuto. 

In un articolo comparso recentemente sul Journal of Humanistic Mathematics, Kevin P. Knudson, matematico e divulgatore dell’Università della Florida (1) fa notare come la costruzione della Muraglia nel racconto di Kafka proceda più o meno per iterazioni successive in modo contrario a quello con cui si costruisce l’insieme di Cantor. Si tratta quasi certamente di una scelta narrativa non intenzionale da parte del grande autore praghese, ma indica come avesse ragione Jorge Luis Borges quando scrisse che “Due idee – o piuttosto due ossessioni – pervadono l’opera di Franz Kafka. La prima è la subordinazione, la seconda è l’infinito” (e si sa quanto l’argentino parlasse anche di sé).

Trovo affascinante questa idea di Knudson, e mi piace pensare al fatto che la più grande costruzione dell’umanità possa essere pensata come nata a partire da una polvere (di Cantor, vabbè).

(1) Knudson, K. P. «Franz and Georg: Cantor’s Mathematics of the Infinite in the Work of Kafka,» Journal of Humanistic Mathematics, Volume 7 Issue 1 (January 2017), pages 147–154. DOI: 10.5642/jhummath.201701.12 . Available at: http://scholarship.claremont.edu/jhm/vol7/iss1/12

giovedì 27 luglio 2017

Semplicità della matematica


Esiste un’opinione molto diffusa secondo la quale la matematica è la scienza più difficile, mentre in realtà è la più semplice di tutte. La causa di questo paradosso sta nel fatto che, proprio per la loro semplicità, i ragionamenti matematici equivoci si vedono subito. In una complessa questione di politica o arte, ci sono tanti fattori in gioco, sconosciuti o non evidenti, che è molto difficile distinguere il vero dal falso. Di conseguenza qualsiasi idiota si crede in grado di discutere di politica o arte - e in realtà lo fa - mentre guarda la matematica da una rispettosa distanza.


Da Ernesto Sábato, Uno y el Universo (1945).
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martedì 4 luglio 2017

Gli indivisibili di Cavalieri


Jorge Luis Borges, ossessionato dall’idea di infinito, nella terza nota a La Biblioteca di Babele, in Finzioni (1944), fa questa considerazione, attribuendola come suo solito a un autore inventato:
“Letizia Alvarez de Toledo ha osservato che la vasta Biblioteca è inutile; a rigore, basterebbe un solo volume, di formato comune, stampato in corpo nove o in corpo dieci, e composto d'un numero infinito di fogli infinitamente sottili. (Cavalieri, al principio del secolo XVII, affermò che ogni corpo solido è la sovrapposizione d'un numero infinito di piani). Il maneggio di questo serico vademecum non sarebbe comodo: ogni foglio apparente si sdoppierebbe in altri simili; l'inconcepibile foglio centrale non avrebbe rovescio”. 
 Il riferimento dello scrittore argentino è al cosiddetto Principio di Cavalieri, anticipato dalle idee di Oresme, Keplero e Galileo ed espresso dal matematico milanese Bonaventura Cavalieri, che afferma che un’area può essere considerata come formata da un numero indefinito di segmenti paralleli equidistanti e sottilissimi (“indivisibili”) e che allo stesso modo un volume può essere considerato come composto da un numero indefinito di aree piane parallele. Cavalieri si rese conto che il numero di indivisibili che costituiscono un’area o un volume deve essere indefinitamente grande, tuttavia non cercò di approfondire questo fatto (che, come vedremo, gli costò feroci critiche), limitandosi a una serie di suggestive metafore: una retta è composta da punti come un rosario da grani; una superficie è composta da rette come una stoffa da fili e un volume è composto da aree piane come un libro da pagine. 

Ma chi era Cavalieri? Nato a Milano nel 1598 e battezzato Francesco, Cavalieri assunse il nome del padre, Bonaventura, quando nel 1615 entrò nei Gesuati, un ordine secolare che sarebbe stato soppresso nel 1668 da Clemente IX sia per carenza di vocazioni, sia perché i suoi beni servivano per pagare i Veneziani nella guerra contro i Turchi. Cavalieri studiò teologia nel convento di San Gerolamo a Milano e poi geometria all’Università di Pisa, dove fu allievo di padre Benedetto Castelli, collaboratore di Galileo, che si accorse della sua forte inclinazione per la matematica.

Terminati gli studi, nel 1619 si candidò alla cattedra di matematica a Bologna, ma fu considerato troppo giovane per l’incarico. Analoghi rifiuti gli giunsero da diversi altri atenei, tra i quali quelli di Pisa e di Roma, al punto che si chiedeva se non ci fosse una prevenzione nei suoi confronti a causa dell’appartenenza ai Gesuati, congregazione molto chiacchierata e malvista dalle gerarchie romane. Nel 1621 conobbe Galileo, del quale volle subito dichiararsi allievo. L’incontro era stato propiziato da Federico Borromeo (il cardinal Federigo di manzoniana memoria), che conosceva e stimava Cavalieri al punto da farlo diacono e suo assistente. Iniziò allora una lunga corrispondenza con lo scienziato pisano, durata per circa vent’anni. Fu in questo periodo che ideò il metodo degli indivisibili per il calcolo di aree e volumi, al quale è associato il suo nome, che anticipa il calcolo integrale e ricorda il metodo di esaustione degli antichi. In una lettera del 1621 a Galileo scriveva:
“Vado dimostrando alcune proposizioni d'Archimede diversamente da lui, et in particolare la quadratura della parabola, divers’ancora da quello di V.S.” 
Galileo lo incoraggiò a pubblicare in un libro le sue idee, dichiaratamente influenzate da Keplero, che, nella Stereometria doliorum vinariorum (1615) aveva calcolato aree e volumi suddividendo i corpi in infinite parti infinitesime, giungendo a risolvere il problema della quadratura dell’ellisse. Cavalieri sviluppò il suo metodo negli anni successivi. Nel novembre del 1627, in un’altra lettera a Galileo, sosteneva di essere in procinto di pubblicare un libro sull’argomento, 
“ho perfettionato un'opera di geometria…. Et è cosa nova, non solo quanto alle cose trovate, ma anco al modo di trovarle, da niuno adoperate insin'ora, ch'io mi sappi”. 
Finalmente ottenuta nel 1629 la sospirata cattedra di matematica a Bologna, ritardò la pubblicazione della sua opera a causa di ripensamenti e riscritture, ma soprattutto per rispetto verso Galileo, che Cavalieri pensava dovesse pubblicare un’opera sugli infinitesimi. In realtà il pisano era interessato solo al risvolto fisico del problema, la struttura atomica della materia, e non intendeva approfondire l’aspetto matematico. Finalmente, nel 1635, diede alle stampe Geometria Indivisibilibus Continuorum Nova Quadam Ratione Promota (Un certo metodo per lo sviluppo di una nuova geometria dei continui indivisibili). Nel testo Cavalieri parla a proposito delle superfici come formate dalla “totalità di tutte le linee” e dei solidi come formati dalla “totalità di tutti i piani”, ciò gli consente di introdurre il suo principio, con il quale giunge a elaborare un nuovo strumento per la determinazione di aree e volumi. Nella sua prima è più semplice formulazione, il principio afferma che: 
“se due solidi hanno uguale altezza e se le sezioni tagliate da piani paralleli e ugualmente distanti da queste stanno sempre in un dato rapporto, anche i volumi dei solidi stanno in questo rapporto”.
Leggiamo dalle sue stesse parole, tratte dalla Geometria Indivisibilibus, come egli sia giunto alla formulazione di tale principio. Così scrive nelle pagine introduttive: 
“Meditando dunque un giorno sulla generazione dei solidi che sono originati da una rivoluzione intorno ad un asse e confrontando il rapporto delle figure piane generatrici con quello dei solidi generati mi meravigliavo moltissimo del fatto che le figure generate si discostassero a tal punto dalla condizione dei propri genitori da mostrare di seguire un rapporto completamente diverso dal loro. Per esempio un cilindro, che sia ottenuto insieme ad un cono della stessa base per rotazione attorno a un medesimo asse, è il triplo di esso, anche se nasce per rivoluzione da un parallelogramma doppio del triangolo che genera il cono. [...] 
Avendo dunque più e più volte fermato l'attenzione su tale diversità in moltissime altre figure, mentre prima, raffigurandomi ad esempio un cilindro come l'unione di parallelogrammi indefiniti per numero e il cono con stessa base e stessa altezza come l'unione di triangoli indefiniti per numero passanti tutti per l'asse, ritenevo che ottenuto il mutuo rapporto di dette figure piane dovesse subito venirne fuori anche il rapporto dei solidi da esse generate, risultando invece già chiaramente che il rapporto delle figure piane generatrici non concordava affatto con quello dei solidi generati mi sembrava si dovesse a buon diritto concludere che avrebbe perduto il tempo e la fatica e che avrebbe trebbiato inutile paglia chi si fosse messo a ricercare la misura delle figure con tale metodo. Ma dopo aver considerato la cosa un po' più profondamente pervenni finalmente a questa opinione e precisamente che per la nostra faccenda dovessero prendersi piani non intersecantisi tra di loro, ma paralleli. In questo infatti, investigati moltissimi casi, in tutti trovai perfetta corrispondenza tanto tra il rapporto dei corpi e quello delle loro sezioni piane quanto tra il rapporto dei piani e quello delle loro linee [...]. 
Avendo dunque considerato il cilindro e il cono suddetti secati non più per l'asse ma parallelamente alla base, trovai che hanno rapporto uguale a quello del cilindro al cono quei piani che chiamo nel libro II ``tutti i piani'' del cilindro a ``tutti i piani'' del cono, con riferimento alla base comune [...]. Stimai perciò metodo ottimo per investigare la misura delle figure quello di indagare i rapporti delle linee al posto di quello dei piani e i rapporti dei piani al posto di quello dei solidi per procurarmi subito la misura delle figure stesse. La cosa, ritengo, andò come era nei miei voti, come risulterà chiaro a chi leggerà tutto”. 
Nei primi due libri dell’opera, Cavalieri espone le ”proposizioni lemmatiche” sulle quali si basa il suo metodo, introduce il concetto di “tutte le linee” di una figura piana e di “tutti i piani” di una figura solida e stabilisce che “tutte le linee” di figure piane (e “tutti i piani di figure solide”) sono grandezze che hanno tra loro rapporto, per cui è possibile poter operare con esse. Ai lemmi si aggiungono poi dimostrazioni e corollari riguardanti, rispettivamente, le sezioni cilindriche e coniche (Libro I) e i triangoli, i parallelogrammi e i rettangoli e le figure le solide derivanti dalle loro rotazioni di (Libro II). 



Il Libro III è dedicato al cerchio, all’ellisse e ai solidi da essi generati. Come esempio del metodo degli indivisibili, vediamo come Cavalieri determina l’area racchiusa dall’ellisse. 



Consideriamo un ellisse di asse maggiore 2a ed asse minore 2b e un cerchio che ha come diametro l'asse maggiore dell'ellisse. Ogni retta perpendicolare al diametro intercetta sul cerchio il segmento PQ e sull’ellisse il segmento P’Q’ considerati appunto come indivisibili delle due curve. Il rapporto fra i due segmenti è a/b

Infatti, utilizzando il linguaggio della geometria analitica le equazioni delle curve sono: 

 


Intersecando le due coniche con rette parallele all’asse delle ordinate, di equazione x = k, si ottengono le coordinate e quindi le misure dei due segmenti intercettati: 


il cui rapporto è sempre a/b

Per il principio di Cavalieri, allora, un uguale rapporto deve intercedere fra l'area del cerchio e quella dell'ellisse in quanto il cerchio è la totalità delle linee PQ e l’ellisse la totalità delle linee P’Q’. Indicando con A l'area dell'ellisse avremo: 


quindi: 


Nei libri successivi Cavalieri dimostra i risultati relativi a figure piane e solide originate dalle sezioni coniche e dalle spirali. Nel libro VII, l’ultimo, formula quello che chiamerà “secondo metodo” in cui chiarisce i fondamenti degli indivisibili. Nel teorema I espone la versione definitiva di quello che ancor oggi è noto come "principio di Cavalieri": 

"Figure piane qualsiasi, poste tra le stesse parallele, in cui, condotte linee rette qualunque equidistanti alle parallele in questione, le porzioni così intercettate di una qualsiasi di queste rette siano uguali, sono parimenti uguali tra loro. E figure solide qualsiasi, poste tra gli stessi piani paralleli, in cui, condotti piani qualunque equidistanti a quei piani paralleli, le figure piane di uno qualsiasi dei piani condotti così determinate nei solidi siano uguali, saranno parimenti uguali tra loro. Si chiamino allora tali figure ugualmente analoghe, sia le piane che le solide confrontate tra loro, e rispetto alle linee di riferimento, o i piani paralleli, tra i quali si suppongono poste, se è necessario indicarlo". 

 Questo principio si dimostra facilmente “a posteriori” con gli strumenti del calcolo integrale, perchè equivale a dire che due integrali definiti, tra gli stessi estremi di integrazione, aventi uguali funzioni integrande, sono uguali; o che se due funzioni hanno rapporto costante allora i loro integrali definiti hanno lo stesso rapporto (una costante moltiplicativa si può portare indifferentemente dentro o fuori dal segno di integrazione): se f(x) = kg(x) allora: 


Cavalieri applica il principio per calcolare aree e volumi confrontando le proprietà di due figure (ad esempio le aree di due superfici o i volumi di due solidi) sulla base del rapporto fra gli indivisibili staccati dall'una e dall'altra sopra un medesimo fascio di rette parallele o di piani paralleli. Il metodo gli consente, ad esempio, di verificare la validità di alcuni problemi risolti da Archimede con il metodo di esaustione sul calcolo dei volumi dei solidi (come il volume del cono è 1/3 di quello del cilindro con la stessa base e la stessa altezza). Allo stesso modo tratta l’area compresa fra due curve, considerando le aree come somma delle ordinate, e se le ordinate stanno in un certo rapporto allora anche le aree stanno nello stesso rapporto. 

Cavalieri conosce il metodo di esaustione, ma è convinto della superiorità del metodo degli indivisibili rispetto ad esso: l’esaustione fa uso essenzialmente della dimostrazione per assurdo, mentre il metodo degli indivisibili è un metodo costruttivo per calcolare aree e volumi. 

Un importante risultato ottenuto da Cavalieri, presentato nell’opera Centuria di varii problemi (1639), riguarda l’area sottesa a certe curve algebriche. Nella moderna simbologia dell’analisi, esso corrisponde alla formula: 


che Cavalieri dimostrò per i valori interi di n compresi tra 1 e 9. La dimostrazione è puramente geometrica. Utilizzando metodi algebrici, Newton generalizzerà la formula, estendendola a tutti i valori razionali di n

L’opera di Cavalieri non venne accolta con molto favore dai geometri sostenitori del pensiero e dell’opera di Archimede. In particolare dovette subire le critiche del matematico svizzero Paul Guldin, noto come Guldino, un ebreo convertito poi diventato gesuita, che era stato solidale con padre Orazio Grassi nella polemica contro Galileo sulle comete e arrivò persino ad accusare Cavalieri di plagio nei confronti di Keplero. Come tutti i gesuiti, Guldino si impegnò a screditare i fondamenti della teoria degli infinitesimi, attaccando Cavalieri nel libro De centro gravitatis, trium specierum quantitatis continuæ, pubblicato a Vienna tra il 1635 e il 1641. L’obiezione principale riguardava la natura delle grandezze geometriche continue (linee, superfici, solidi), a proposito delle quali Guldino sostiene l'impossibilità che vengano costruite riunendo grandezze aventi una dimensione in meno:
"che dunque quella superficie sia, e in linguaggio geometrico possa chiamarsi tutte le linee di tale figura, ciò a mio avviso non gli sarà concesso da nessun geometra; mai infatti possono essere chiamate superficie più linee, oppure tutte le linee; giacché la moltitudine delle linee, per quanto grandissima essa sia, non può comporre neppure la più piccola superficie.” 
La tesi di Guldino è che “il continuo è divisibile all'infinito, ma non consta di infinite parti in atto, bensì soltanto in potenza, le quali [parti] non possono mai essere esaurite”. La conclusione di Guldino è che “questa proposizione sulle figure piane non è stata in alcun modo dimostrata in maniera valida”. Il bersaglio delle critiche dei geometri gesuiti è proprio il concetto di vicinanza infinita, che sfugge ad ogni tentativo di definizione geometrica rigorosa (e soprattutto va in direzione contraria al metodo di Esaustione di Archimede). 

In risposta alle critiche, Cavalieri, nel 1647, pubblicò Contro Guldino. Esercitazione terza, inclusa nelle Exercitationes geometricae sex. Così Cavalieri critica alcune contestazioni di Guldino: 
“Infatti in molti passi, sia Archimede, sia molti altri dediti alla Geometria più pura, dimostrano che si possono inscrivere, e circoscrivere ad una figura data altre figure, in modo che la figura circoscritta superi l’inscritta per una grandezza, la quale sia minore di qualsiasi grandezza data del medesimo genere. Concludono dunque che la circoscritta è uguale all’inscritta? Per niente affatto; adoperato invece un altro termine medio, dimostrano che la figura alla quale è stata fatta l’inscrizione e la circoscrizione, è uguale a una certa altra, la quale sia invero minore della circoscritta, maggiore invece della inscritta”. 
La polemica finì per concentrarsi su questioni filosofiche: il metodo di esaustione sostenuto da Guldino è rigoroso, ma scomodo, mentre quello degli indivisibili è di più immediata applicazione pratica, anche se non è ancora sorretto da un adeguato impianto concettuale e formale. Polemicamente, Cavalieri giunse ad affermare persino che “il rigore (...) è affare della filosofia e non della geometria”

Nelle già citate Exercitationes geometricae sex del 1647, Cavalieri, seguendo una via diversa, confrontò non più singoli indivisibili corrispondenti sulle due figure, ma la somma degli indivisibili della prima figura con la somma di quelli della seconda. La teoria degli indivisibili può essere applicata per dimostrare, ad esempio, che l’area di un parallelogramma è il doppio dell’area di ognuno dei triangoli in cui lo suddivide ciascuna delle diagonali. 

Se, nel parallelogramma ABCD si scelgono, sui lati AD e BC, i punti G ed E in modo che GD = BE, allora i segmenti GH ed FE della figura, aventi il secondo estremo sulla diagonale, e paralleli alla base, hanno la stessa lunghezza. Quindi i due triangoli ABD e BCD sono composti da due somme uguali di segmenti a uno a uno corrispondenti, e quindi, secondo il principio degli indivisibili, le loro aree sono uguali. 


Nonostante le critiche, il metodo degli indivisibili si diffuse subito in Italia e in Europa.. Non mancarono ulteriori sviluppi, soprattutto grazie a Torricelli, che con il metodo di Cavalieri riuscì a calcolare il volume del solido iperbolico, suscitando l’ammirazione dei contemporanei e il loro stupore, dato che il problema era ritenuto impossibile. Torricelli ebbe l’accortezza di accostare alla dimostrazione con il metodo degli indivisibili anche quella “con il metodo solito di dimostrazione degli antichi geometri, il quale è bensì più lungo ma non per questo, secondo me, più sicuro”

Lo stesso Torricelli non mancò tuttavia di esprimere perplessità sul metodo di Cavalieri invitando alla prudenza nel suo impiego. In molti frammenti, raccolti sotto il titolo di Contro gl’infiniti, Torricelli presenta diversi ragionamenti fallaci, tranelli in cui si può facilmente cadere facendosi prendere troppo dal fascino degli indivisibili. Torricelli mostra ad esempio una variante scorretta del ragionamento sul parallelogramma,, che conduce ad un risultato erroneo. 


Il triangolo ABD è unione dei segmenti, paralleli ad AD, delimitati dal lato AB e dalla diagonale BD: FG è uno di questi. Analogamente, il triangolo BDC è formato dai segmenti che, come FE, sono paralleli ad AB e sono delimitati dal lato BC e dalla diagonale. Confrontando a due a due i segmenti delle due schiere, come FG e FE, si vede che ad ogni segmento del triangolo ABD ne corrisponde, nel triangolo BDC, uno più lungo. Apparentemente segue che l’area di BDC è maggiore di quella di ABD, il che, naturalmente, è falso. 

Cavalieri ebbe il merito di aver coraggiosamente preso in esame il concetto di infinitesimo e per questo deve essere considerato come uno degli anticipatori del Calculus. Il suo metodo sembrava destinato a un impiego duraturo, tuttavia, ben presto ritenuto laborioso e non sufficientemente rigoroso, venne abbandonato in seguito alla diffusione di nuovi e potenti strumenti di calcolo.