martedì 28 agosto 2012

Leporeambi politici irregolari indignati disincantati


Al talento bizzarro del poeta Ludovico Leporeo (1582–1653 circa) ho già dedicato un articolo un paio d’anni fa. Egli fu l’inventore dei leporeambi, poesie di forme diverse (molto spesso sonetti), con metrica variabile, piene di termini inusitati, parole sdrucciole e bisdrucciole, rime interne, assonanze, allitterazioni, un funambolico meccanismo al quale l’autore pensava di affidare la propria fama d'inventore di un nuovo modo di far poesia. Autore barocco per eccellenza, in lui la grande capacità tecnica prevaleva sul messaggio: la sua arte è stata accusata di dir niente nel modo più complicato possibile, eppure è una poesia seducente, a tratti anticipatrice degli esperimenti delle avanguardie o dei giochi dei ludolinguisti. 

I leporeambi morirono con il proprio creatore, almeno fino a quando un blogger che poeta non è gli ha trovati simpaticamente adatti all’invettiva politica, pur essendo consapevole della sua grande imperizia tecnica. Preveggente, il Leporeo gli dedicò questo sonetto: 

Leporeambo alfabetico duodecasillabo satirico unisono irrepetito 

Contra un improvisatore 
acoli-ecoli-icoli-ocoli 

O tu, che in poesia fai li miracoli 
E 'l tutto hai penetrato allor che specoli, 
Giust'è che l'universo si trasecoli, 
Ché in verseggiar non hai minimi ostacoli. 

Tu stampe non adopri o carte macoli, 
E fai versi latini, etruschi, e grecoli, 
E dicon quelli a cui narrando io recoli 
Che per la bocca tua parlan gli oracoli. 

Tu li poeti e i retori sventricoli, 
L'Arcifanfano fai degli Arcicocoli, 
E del rimario sai tutti gli articoli. 

Argo sei de' Tersiti e de' monocoli, 
Degno che per le piazze e per li vicoli 
Ti si lancino aranci e bericocoli. 


Quelli qui di seguito presentati sono componimenti dal metro irregolare, piuttosto zoppicanti, scritti per sfogare una certa indignazione in una forma che la fa virare verso il disincanto. La loro allegra idiozia è un tentativo di cogliere l’odierno cretinismo parlamentare e mediatico. 

Leporeambo irregolare politico indignato irrepetito 

A un trasformista di lungo corso 
otto-etto-atto-itto 

Meriteresti di prigion anni otto, 
per il ceffo tuo che pare un retto, 
la bocca larga da fare effetto 
e il naso grosso da fagiol borlotto. 

Poi altri trenta perché sei corrotto, 
piduista come il nano abbietto, 
vestito sempre in doppiopetto, 
che ti prese come zerbinotto. 

Per la menzogna tu sei adatto, 
e dentro di te ti credi un dritto, 
ma tarocco sei come il bagatto. 

Or finisce l’era del gran guitto 
e tu con lui, politico d’accatto, 
leccante lacchè, ciccio Cicchitto. 


Leporeambo irregolare politico infuriato irrepetito 

Al moderato dai toni concilianti 
ente-inte-onte-ante 

I compari ti dicon intelligente 
per le tue uscite assai distinte, 
che nella saggezza paion intinte: 
del compromesso tu sei l’agente. 

Ma non scordo quando, indecente, 
con parole di doppiezza incinte, 
parlasti alla Camera dalle quinte 
rivendicando opposizion clemente. 

E quando dicesti di tua sponte 
a seguaci e nipoti di Almirante 
che Salò era un degno fronte. 

Mente conciliante e benpensante, 
per il poter, vero camaleonte, 
daresti pur il culo, mio Violante. 


Leporeambo irregolare politico acrostico irrepetit

Il capopopolo 
allo-ello-ollo-illo 

Benvenuto anche tu al gran ballo 
E della politica il gran bordello, 
Per pestar col tuo randello 
Padrino, ruffiano e lor vassallo. 

Eminenza, deputato e maresciallo, 
Gelosi del lor pingue orticello, 
Riuniti in furioso capannello, 
Imprecan con parole da camallo. 

La Presidenza perde il controllo, 
Levandosi con fare da caudillo: 
Oramai paventa il suo tracollo. 

Ritieni che basti indicar bacillo? 
Inver sei illuso fino al midollo, 
Perché curar non sai, Beppe Grillo.



lunedì 27 agosto 2012

Moonshot: l’impresa dell’Apollo 11 raccontata ai bambini


Era la sera di domenica 20 luglio 1969. Avevo finito le medie da un mese e, qualche giorno più tardi, mi sarei iscritto al Liceo Scientifico. Io c’ero, ho assistito, come mezzo miliardo di persone in tutto il mondo, a uno degli eventi più importanti del Novecento, la diretta televisiva dello sbarco dell’uomo sulla Luna. La qualità delle immagini era quella che era, ma tutto ciò che si vedeva aveva del prodigioso.

 

Chi appartiene alla mia generazione difficilmente può dimenticare quei minuti, ingigantiti nel ricordo anche dalla diatriba tutta italiana tra Tito Stagno da Roma e Ruggero Orlando da Houston sull’esatto momento in cui il modulo lunare toccò la superficie del nostro satellite. 

Ma quanto è rimasto di quell’impresa nell’immaginario di chi allora non era ancora nato? Chi sa della competizione con l’Unione Sovietica, dei missili Saturn, del programma Apollo, del LEM, di Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Michael Collins? Naturalmente non parlo di chi, per studio o contingenze sociali e famigliari, ha la possibilità di essere informato. Parlo dei ragazzi che frequentano la scuola primaria, dei giovani della secondaria, e dei loro fratelli più grandi, e anche di molti dei loro genitori. 


Dal mio punto di osservazione particolare, cioè quello di insegnante in un Centro di Formazione Professionale, la risposta al quesito è poco confortante: si sa che l’uomo è andato sulla Luna, ma potrebbe essere successo in un intervallo di tempo compreso tra i tempi di Napoleone e l’altro ieri, e si ignora come ci sia andato, a meno di aver visto qualche film di successo (penso ad Apollo 13) o qualche cartone animato giapponese. I più informati sono i non pochi negazionisti, che trovano affascinanti i vaneggiamenti di oscuri complotti visti nelle trasmissioni della TV-spazzatura o su Internet, gli stessi che credono agli sbarchi alieni di Giacobbo e rifiutano di credere che l’uomo possa essere riuscito in questa straordinaria impresa perché l’ombra di una bandierina non sembra naturale. 


Sicuramente in altri tipi di scuole la situazione è migliore, ma ho il timore che questa ignoranza si collochi in un contesto generale all’interno del quale molti dei giovani di oggi vivono in un eterno presente senza passato e, ahimè, senza futuro come prospettiva ideale. 

Non spetta a me indicare le cause di tale stato delle cose (di sicuro esistono responsabilità della scuola, ma anche delle famiglie, in un trionfo dell’indulgenza e del pressapochismo che investe tutta la società): posso solo tentare di indicare un antidoto nella lettura, sin da piccoli, di libri che parlino di scienza in modo adatto all’età. Sulla splendida avventura dello sbarco sulla Luna esiste un bellissimo libro illustrato di 40 pagine, adatto ai bambini in età prescolare, che è stato letto e consigliato da Michael Collins e altri astronauti delle missioni Apollo e che meriterebbe di essere tradotto nella nostra lingua. L’ha realizzato l’illustratore di libri per bambini Brian Floca, il quale si è a lungo documentato per poi ripercorrere tutta la vicenda, in un testo ricco di bellissimi disegni e di testi semplici e chiari. Si tratta di Moonshot, The flight of Apollo 11, ed è stato pubblicato nel 2009, in occasione del quarantesimo anniversario della missione, presso Atheneum. Costa intorno ai 13 euro. Ho trovato anche il promo:

 

Nel libro si conserva il senso dell’impresa collettiva, giunta a compimento dopo una lunga preparazione. Pur fornendo notizie particolareggiate e dati tecnici sulla missione di Apollo 11 e suoi successi, Floca non tralascia mai il lato umano dei protagonisti della vicenda. 


Spero proprio che, magari per il 2019, in occasione del 50° anniversario, anche i bambini italiani abbiano l’occasione di sfogliare, ammirare, leggere queste bellissime pagine.



giovedì 23 agosto 2012

Il mistero dell’omochiralità



La chiralità è una proprietà delle asimmetrie importante in diversi campi della scienza. Un oggetto o un sistema di oggetti è chirale se non è identico alla propria immagine speculare. Il nome deriva dal greco χειρ, cheir, che significa “mano”, il tipico oggetto chirale (*). Infatti la mano sinistra è un’immagine speculare non sovrapponibile di quella destra. Questa differenza nella simmetria diventa ovvia quando si cerca di stringere la mano destra di una persona usando la mano sinistra, oppure quando si vuole indossare un guanto sinistro sulla mano destra. Anche una vite, che può avere un filetto che ruota in senso orario o antiorario, è un oggetto chirale. Al contrario, un chiodo è identico e sovrapponibile alla propria immagine speculare, quindi non è chirale. 

Un oggetto chirale e sua immagine riflessa sono detti enantiomorfi (“di forma opposta). Un oggetto non chirale viene chiamato achirale, o, talvolta, anfichirale, e può essere sovrapposto alla sua immagine speculare. 

In matematica, una figura è chirale se non può essere sovrapposta alla sua immagine riflessa ricorrendo solamente a rotazioni e traslazioni. In geometria piana, un poligono è chirale se e solo se non ha un asse di simmetria. Perciò i poligoni regolari non sono chirali, e neppure i triangoli isosceli, mentre i triangoli scaleni sono tutti chirali. Nella figura, il poligono rosso è chirale, mentre il pentagono giallo e il cerchio blu non lo sono. In geometria solida, ogni figura che possiede un piano o un centro di simmetria è achirale, come ad esempio i solidi platonici: ciascuno di questi ammette infatti numerose simmetrie, di cui la metà sono riflessioni. 


Il concetto di chiralità in chimica è un elemento fondamentale per la descrizione della struttura delle molecole e per comprenderne le interazioni. Due molecole identiche in tutto, salvo l'essere una l'immagine speculare dell'altra tra loro non sovrapponibili, sono dette enantiomeri, come ad esempio accade per l’acido lattico.

Due molecole tra di loro enantiomere possiedono le medesime proprietà fisiche, tranne il fatto di ruotare la luce polarizzata in direzioni opposte (potere rotatorio). Se ruota il piano di vibrazione della luce polarizzata in senso orario (da sinistra a destra) la molecola è detta destrogira (o destrorotatoria), mentre se la rotazione avviene in senso antiorario (da destra a sinistra) è detta levogira (o levorotatoria). Le molecole enantiomere assumono lo stesso comportamento chimico nei confronti di sostanze non chirali. Diversa è invece la loro interazione chimica nei confronti delle altre molecole chirali. Ad esempio, una molecola chirale utilizzata come farmaco può dare benefici effetti per trattare determinati sintomi, mentre il suo enantiomero può dare effetti collaterali anche gravi. 


Sulla Terra, quasi sempre, gli organismi biologici producono un solo enantiomero di una molecola chirale. Spesso nei sistemi viventi solo uno dei due enantiomeri di una coppia viene coinvolto nei cicli metabolici. Ad esempio, gli organismi viventi utilizzano per la sintesi delle proteine quasi esclusivamente gli amminoacidi levogiri e i carboidrati destrogiri. Si parla a proposito di omochiralità

Questa caratteristica omochiralità biomolecolare non ha ancora una spiegazione, al punto che la domanda


compare nello speciale So Much More to Know…, pubblicato dalla rivista Science in occasione del suo 125° anniversario (2005), tra le 125 domande alle quali la scienza non ha ancora saputo dare una risposta.

Non è infatti accertato se l’omochiralità nel vivente abbia uno scopo, per quanto essa appaia come una forma di archiviazione di informazioni. Si è suggerito che essa riduca le barriere entropiche nella formazione di grandi molecole organizzate e si è verificato sperimentalmente che gli aminoacidi formano aggregati in maggiore abbondanza da substrati enantiopuri (formati dallo stesso enantiomero, ad esempio quello levogiro) piuttosto che da substrati racemici (formati da una mescolanza in pari quantità dei due enantiomeri). 

È anche del tutto possibile che l’omochiralità derivi semplicemente dal naturale processo di auto-amplificazione della vita, sia che la formazione della vita abbia “scelto” una forma di chiralità invece dell’altra (la vita determina la chiralità), sia che le chiralità delle biomolecole siano emerse a causa di una “battaglia ancestrale” tra gli enantiomeri “vinta” da quelli che oggi osserviamo (la chiralità determina la vita). In questa seconda ipotesi, la rottura della simmetria chirale è provocata dall’introduzione di instabilità nella mistura racemica (simmetrica), che possono essere dovute alle condizioni ambientali. 


Nella figura è illustrato un modello a 2 dimensioni di evoluzione di una polarità chirale da una mistura racemica. L’ipotesi è quella di considerare questa evoluzione come la rottura di simmetria in un sistema bifase con transizioni di fase continue. L’evoluzione spaziotemporale porta a domini chirali separati da sottili interfacce, che rimangono in equilibrio a causa della tensione superficiale fino a che effetti dovuti all’ambiente rompono la loro stabilità e il sistema va verso un assetto enantiopuro. Il rosso (+1 sulla barra dei colori) corrisponde alla fase levogira, il blu (-1 sulla barra dei colori) alla fase destrogira. Il tempo scorre da sinistra a destra e dall’alto verso il basso. In alto a sinistra è la condizione iniziale racemica. In alto al centro e a sinistra è illustrata l’evoluzione dei due domini chirali separati. In basso a sinistra, gli effetti ambientali rompono la stabilità della struttura delle interfacce. Infine, in basso a destra, l’evoluzione della tensione superficiale conduce al prevalere di uno dei due enantiomeri. 

È opinione diffusa che la selezione chirale sia avvenuta a livello molecolare e che la risultante complessità delle specie molecolari portò all’emergenza della vita. Questa idea si basa sull’argomento che la vita non potrebbe esistere né si potrebbe essere originata senza l’asimmetria biomolecolare, ed è supportata da esperimenti che dimostrano che le conformazioni specifiche di entità strutturali fondamentali come l’alfa elica o il foglietto beta delle proteine si possono formare solo da blocchi costruttivi enantiopuri. Si ritiene perciò che le condizioni prebiotiche necessarie per il successivo sviluppo di molecole complesse dovevano essere chirali. 


E’ probabile che l’ambiente estremo della Terra primordiale abbia giocato un ruolo cruciale nella genesi delle biomolecole chirali, potendo aver determinato una specifica strada, tanto remota da non poter essere più rintracciata, qualunque sia stata la sua origine (vulcanesimo attivo, bombardamento meteorico, ecc.). La chiralità della vita è intrecciata con la storia ambientale delle ere più antiche del pianeta e di come essa ha condizionato l’abiogenesi, cioè l’emergere della vita a partire dalla materia inorganica attraverso processi naturali. 

L'omochiralità potrebbe essere emersa con un meccanismo analogo a quello degli equilibri punteggiati proposto da Gould e Eldredge nell’ambito della teoria dell'evoluzione per selezione naturale, secondo la quale i cambiamenti evolutivi avvengono in periodi di tempo brevi (a scala geologica), sotto l'impulso di forze selettive ambientali; questi periodi di variazione evolutiva sarebbero intervallati da lunghi periodi di stabilità evolutiva. 

La “chiralità punteggiata” sarebbe così un’estensione dell’ipotesi di Gould e Eldredge ai tempi prebiotici, durante i quali solo in particolari brevi periodi le condizioni ambientali possono aver favorito l’emergere della chiralità preferenziale all’interno di miscele di molecole adatte, chiralità che potrebbe essere anche stata distrutta in successive fasi attive e poi essere ricomparsa, magari in più luoghi e tempi, secondo un meccanismo di selezione ambientale dell’enantiomero più adatto allo sviluppo della vita. 

Possiamo infine chiederci, in un’epoca in cui si scoprono sempre nuovi esopianeti e ferve la ricerca di forme di vita al di fuori della Terra, se l’omochiralità riscontrata sul nostro pianeta possa essere considerata una caratteristica universale. Che tipo di chiralità potrebbero mostrare molecole di aminoacidi o carboidrati eventualmente scoperti su Marte, su Titano, o su un lontano pianeta di un diverso sistema stellare? Alla luce di quanto visto, l’ambiente determina i fattori per l’emergere della vita, oppure può distruggerla subito dopo che si è sviluppata, oppure ancora può essere talmente ostile da non consentire mai il suo sviluppo. C’è da considerare che la storia della vita su un pianeta riflette la storia della vita del pianeta stesso. Se le condizioni ambientali sono, o sono state, diverse da quelle terrestri, nulla vieta che in futuro si possano scoprire nel cosmo biomolecole con chiralità diversa da quella terrestre.


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(*) Wikipedia in inglese sostiene che il termine chiralità fu utilizzato per la prima volta da Lord Kelvin in una conferenza tenuta a Baltimora nel 1904: 

"The term was first used by Lord Kelvin in an address in 1904. In a lecture given in Baltimore on "Molecular Dynamics and the Wave Theory of Light" he stated: "I call any geometrical figure, or group of points, 'chiral', and say that it has chirality if its image in a plane mirror, ideally realized, cannot be brought to coincide with itself" ."


La parola indubbiamente nasce nell’ambiente dei fisici scozzesi di cui William Thomson, lord Kelvin, faceva parte con James Clerk Maxwell e Peter Guthrie Tait, impegnati intorno al 1860 nella ricerca sulla topologia dei nodi all’interno della teoria kelviniana degli atomi-vortice. È probabile che essa sia stata coniata proprio da lui. Tuttavia, il concetto di chiralità non fa la sua pubblica comparsa solo nel 1904, visto che Maxwell, nell’ultima poesia scritta qualche mese prima di morire per un tumore nel 1879, la Paradoxical Ode, proprio nel primo verso, utilizza il termine anfichirale

 My soul’s an amphicheiral knot 
Upon a liquid vortex wrought 
By Intellect in the Unseen residing, 
(…) 

Che avevo tradotto così: 

La mia anima è un nodo riflessibile, 
allacciato su un vortice liquido 
dall'Intelletto che abita l’Invisibile, 
(…)

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Marcelo Gleiser, Sara Imari Walker (2012). Life's Chirality From Prebiotic Environments. Plenary talk delivered at the São Paulo Advanced School of Astrobiology, São Paulo, December 2011. In press, Int. J. Astrobio. arXiv: 1202.5048v2

sabato 18 agosto 2012

Il missile del Papa


L’obelisco è ancora lì, nel bel mezzo di Piazza San Pietro, da quando fu issato nel 1586. Sì, quello portato a Roma per ordine di Caligola nel 37, l’unico rimasto in piedi da quei tempi, che si ergeva di fianco alla chiesa di Santa Maria della Febbre e fu portato dove adesso si trova per realizzare il folle progetto di Sisto V e del suo architetto di fiducia, Domenico Fontana. L’Obelisco Vaticano doveva infatti servire per ben altro che abbellire il centro della cristianità. 


Papa autoritario e inviso a molti, in soli cinque anni di pontificato (1585-1590), Sisto V cambiò il volto fisico e morale di Roma, costruendo grandiosi edifici, sventrando strade, sterminando i briganti e risanando le finanze vaticane con imposte odiose. Tuttavia, come molti grandi sovrani cui le contingenze hanno fornito poteri quasi assoluti, era percorso da una vena di ambizione smisurata e, dopo essere stato uno zelante e feroce inquisitore, da un certo delirio di onnipotenza. Era convinto che, sotto la sua guida, la cristianità avrebbe potuto annientare il Turco e voleva trasportare il Santo Sepolcro in Italia, come avevano fatto gli Angeli con la Casa di Maria portata in volo a Loreto, nelle sue Marche. 


Il ticinese Domenico Fontana era l’artefice preferito di Sisto V da ben prima che questi diventasse papa e lo nominasse architetto di San Pietro, insignendolo dello Speron d’Oro. Grande ingegnere civile, sapeva organizzare i cantieri con metodo ed efficienza, risolveva con soluzioni geniali i problemi di statica e di idraulica, ma le sue numerose opere architettoniche sono piuttosto ripetitive perché, una volta trovata una soluzione, tendeva ad applicarla ovunque lo ritenesse necessario. Lo si direbbe persona di grande razionalità, se non si conoscesse quanto il lettore troverà di seguito. 


Entrambi questi uomini avevano una passione nascosta, che li avvicinò sempre più e che fu la radice del loro folle progetto: guardare il cielo notturno. L’astronomia era l’ossessione del cardinal Montalto, il futuro papa Sisto, che nella contemplazione delle meraviglie del creato trovava un mezzo per l’elevazione spirituale. Possedeva una copia dell’Almagesto di Tolomeo e sapeva calcolare le posizioni dei pianeti per mezzo dei loro epicicli. Anche Fontana era un osservatore del cielo, soltanto che egli quelle meraviglie voleva cambiare, lasciando un segno dell’umano ingegno nello schema celeste voluto dall’Onnipotente. Ne parlavano tutte le volte che si incontravano, tra un progetto e l’altro, tra un comando e un resoconto. Fontana sapeva come solleticare la vanità del potente cardinale, e un giorno gli propose di intitolare una stella a suo nome. Ottenne un diniego, ma sapeva che la modestia nasconde spesso ambizioni ancor più elevate. Dopo qualche mese, si era alla vigilia del conclave, parlarono finalmente del progetto, insieme folle e spudorato: far nascere una nuova stella, perforando la sfera delle stelle fisse e creare una nuova luce nel firmamento. 


Una volta divenuto Vicario di Cristo, secondo solo a Lui sulla Terra, Sisto V poté finalmente tentare di realizzare il suo sogno, che nel frattempo il Fontana aveva studiato nei minimi dettagli. La sfera più esterna dell’Universo Mondo è perforata da buchi attraverso i quali può penetrare un po’ di luce dell’Empireo. Sono questi buchi le stelle fisse, così dette perché, al contrario di quelle dello zodiaco, non cambiano mai posizione durante l’anno. Nel corso della millenaria vicenda umana, Iddio si è compiaciuto di variare il suo schema primigenio: nuove stelle sono comparse sulla sfera, spesso con bagliori tanto intensi da essere visibili per qualche tempo anche di giorno. Evidentemente la sfera superiore non è inattaccabile: un corpo sufficientemente grande, lanciato con moto sufficientemente elevato, può perforarla liberando la luce divina. 


Il problema, se teoricamente è risolvibile, è per l’uomo praticamente irrealizzabile: nessun proietto lanciato dall’uomo, neanche con un potente cannone, potrà mai aver la forza sufficiente per raggiungere tale distantissimo obiettivo. L’uomo da solo non potrà mai, ma Dio volendo… e come può Dio volere se non attraverso la preghiera del Papa? Il proietto sarebbe stato mosso dalla forza spirituale della preghiera congiunta del Papa e dei cardinali presenti a Roma. Il proietto ideale, che doveva perforare come un chiodo la parete dell’ultima sfera celeste, fu individuato dal Fontana nell’obelisco, che avrebbe dovuto essere portato davanti a san Pietro per essere più vicino alla fonte stessa della misericordia e della preghiera: la tomba dell'Apostolo. 


I colossali lavori di trasporto e di innalzamento in posizione verticale dell’enorme obelisco in granito rosso sono noti a tutti e sono rimasti nell’immaginario del popolo romano. Lo stesso artefice ne ha fatto un’accurata relazione, corredata da bellissime incisioni, in Della trasportazione dell'obelisco vaticano et delle fabriche di Nostro Signore Papa Sisto V fatte dal Cavallier Domenico Fontana architetto di Sua Santità, libro primo, Domenico Basa, Roma 1590. Le immagini rendono l’idea assai più delle parole. Da solo, il castello di legno che doveva servire da rampa di lancio è un’opera ingegneristica che ancor oggi suscita ammirazione. 


L’opera fu completata il 10 settembre del 1586, quando l’obelisco fu issato con l’ausilio di un gigantesco sistema di argani. Il lancio, inizialmente previsto per la ricorrenza della Madonna del Rosario, il 7 ottobre, fu rinviato per una leggera indisposizione del pontefice. La data celebrava la vittoria del 1571 ottenuta contro il Turco nella Battaglia di Lepanto, quando Papa Pio V chiese alla cristianità di pregare con il rosario per chiedere la vittoria della flotta cristiana, che infatti avvenne, grazie all'intercessione della Vergine Maria. Si decise allora di dare corso all’ambito sogno pontificio alla mezzanotte del successivo 25 dicembre, quando una nuova luce nel cielo, la Stella Sistina, avrebbe celebrato la nascita di Nostro Signore Gesù Cristo come una novella cometa. 


Senza rivelarne il vero motivo, si ordinò che in tutte le chiese di Roma fosse recitato il Santo Rosario a partire da un’ora prima della mezzanotte fino allo scoccare del dodicesimo tocco. Il Papa, i Cardinali e i diaconi si riunirono in preghiera sulla tomba del Santo. Solo Sisto e il Fontana conoscevano la miracolosa sorpresa che avevano intenzione di fare all’ecclesia cristiana, talmente grande da poter riportare i luterani nell’ovile di Cristo, e forse gli stessi mussulmani. 


Carichi di tensione, i due attesero il momento programmato. C’è chi giura di aver sentito Domenico Fontana accompagnare gli ultimi rintocchi contando alla rovescia: “Quattro, tre, due, uno, Alleluia!”. Ma nulla accadde. Il Papa scambiò tristemente gli auguri natalizi con i cardinali, avviandosi a celebrare la Messa di Natale. Il Fontana si diresse verso la propria residenza, chiedendosi che cosa fosse andato storto, giungendo persino a dubitare della reale santità di Sisto. Fu un pensiero momentaneo, che scacciò mentre spegnava la luce della candela. 

L'obelisco è rimasto dov'era, mancato missile del Papa.

martedì 14 agosto 2012

Sette canne, un vestito


La storia dell’industrializzazione italiana nel Novecento è fatta spesso di grandi idee, di investimenti ambiziosi, di crisi che sembrano definitive, di rilanci e di sogni che talvolta sono diventati realtà. Basti pensare alla vicenda dell’ENI, società che fu affidata a Enrico Mattei per essere liquidata e che nel dopoguerra divenne un gigante nel settore petrolifero. La chimica industriale ha giocato un ruolo importante nel processo di crescita del nostro paese, in molti settori strategici come ad esempio quello della produzione di fibre tessili artificiali. 

Metodi per la produzione di fibre per l’industria tessile a partire dalla cellulosa dei vegetali erano noti già negli ultimi decenni dell’Ottocento, ma solo nel 1902 il chimico inglese Charles Frederick Cross e i suoi collaboratori brevettarono una seta artificiale che chiamarono viscosa. Il nome deriva dal fatto che la cellulosa, che è insolubile in quasi tutti i solventi, si scioglie in una soluzione alcalina di un solvente organico, il disolfuro di carbonio, formando un derivato chiamato xantato di cellulosa. Questa sostanza si presenta come una dispersione colloidale viscosa, da cui il nome commerciale. Quando la viscosa viene estrusa attraverso piccoli fori e il filamento risultante viene trattato con acido, la cellulosa viene rigenerata nella forma di sottili fili che possono essere usati nella produzione di un tessuto simile alla seta, poi chiamato rayon. Un processo simile, in cui la viscosa viene estrusa attraverso una sottile fenditura, produce fogli di cellophane


Un ruolo importante nella storia della produzione italiana fu svolto dalla SNIA. Nata nel 1917 a Torino su iniziativa dell’imprenditore e finanziere biellese Riccardo Gualino, la SNIA (Società di Navigazione Italo Americana) era all’inizio una società per il trasporto marittimo del carbone degli Stati Uniti in Italia. Con la fine della guerra, in seguito al crollo dei noli marittimi, la società decise di diversificare l’attività, interessandosi alla produzione di fibre artificiali. Acquistando e assorbendo diverse aziende chimiche, la SNIA, che sarebbe poi diventata Società Navigazione Industriale Applicazione Viscosa (SNIA Viscosa) divenne una delle più importanti aziende del paese nella produzione di ciò che allora si chiamava seta artificiale e che, quando nel 1924 si proibì per legge l’uso del nome seta per i prodotti non derivanti dal baco da seta, prese il nome di rayon. 

Anche la SNIA sembrò a un certo punto affrontare una crisi fatale, quando Gualino, che si era avventurato in speculazioni finanziarie in prossimità della grande crisi del 1929, entrò in urto con il governo fascista. Intervenne allora un azionista dell’azienda, l’imprenditore milanese Senatore Borletti, che assunse temporaneamente la presidenza (1930) per poi affidare il timone nel 1934 a Franco Marinotti, che aveva fatto esperienza nel settore tessile con il commercio in Unione Sovietica e nel Vicino Oriente. Marinotti risollevò l’azienda, anche grazie ai buoni rapporti con il fascismo (fu vice podestà a Milano), e la resse, tranne che nel periodo 1943–47, promuovendone lo sviluppo, quasi fino alla morte, avvenuta nel 1966. 


La politica di autarchia imposta all’Italia dalle sanzioni internazionali dopo la guerra d’Etiopia impose di fare a meno del legno delle conifere dell’Europa settentrionale per l’approvvigionamento di cellulosa, la materia prima per il processo di produzione del rayon. Si pensò allora di utilizzare la canna gentile (Arundo donax), specie che abbondava nelle zone paludose che allora si stavano bonificando. Proprio in una di queste aree in via di risanamento nel sud del Friuli, i cui dintorni erano ricchi di canne, si decise di impiantare un insediamento industriale per la produzione del rayon. Attorno al vecchio centro agricolo di Torre di Zuino, in comune di San Giorgio di Nogaro, si costruì nel biennio 1936-37 un importante stabilimento della SNIA, circondato da case per gli operai e da una rete di servizi. Si crearono edifici pubblici e abitativi, stadio, piscina e strutture produttive, collegati da un razionale assetto viario, che costituiscono uno degli esempi più interessanti di pianificazione urbanistica del periodo fascista. L’opera fu inaugurata da Benito Mussolini in persona il 21 settembre 1938 e fu celebrata da un poema di Filippo Tommaso Marinetti.



Nacque così Torviscosa, divenuto comune autonomo nel 1940, che, per certi versi, anticipa l’idea di “centro aziendale”, che negli anni ’50 ispirò la nascita di Metanopoli “capitale” dell’ENI di Enrico Mattei alle porte di Milano. Il primo podestà del neonato comune friulano fu naturalmente Marinotti. 

Negli anni 1944-45 i bombardamenti alleati colpirono la fabbrica di Torviscosa nei suoi punti nevralgici. Appena finita la guerra, si ripararono gli ingenti danni e riprese la produzione di rayon. L’approvvigionamento di materia prima era difficoltoso, e perciò si continuò a ricorrere all’autarchica canna gentile. Per promuovere la propria attività, nel 1949 la SNIA decise, come usava prima dell’avvento della televisione, di commissionare un cortometraggio da proiettare nella sale cinematografiche. La stessa cosa sarebbe ad esempio accaduta in Francia otto anni dopo, quando la Pechiney commissionò ad Alain Resnais un documentario sull’utilità della plastica che si giovò del testo in versi alessandrini di Raymond Queneau.

L’incarico fu assegnato a Michelangelo Antonioni, che aveva collaborato con Roberto Rossellini e Luchino Visconti in Italia e con Marcel Carné in Francia e aveva alle spalle una discreta produzione documentaristica (Gente del Po, 1943-47, Nettezza Urbana, 1948, L’amorosa menzogna, 1949, questi ultimi due entrambi premiati con un Nastro d’argento). Le riprese furono effettuate negli stabilimenti di Torviscosa e di Varedo, riprendendo direttamente i lavoratori e le macchine in azione. Nacque così Sette canne, un vestito


Accompagnato dalla voce narrante, che legge un testo semplice e chiaro (con il bell’incipit “Questa è la favola del rayon”), il documentario illustra tutte le fasi di produzione del rayon a partire dalla canna gentile. Si parte dallo sminuzzamento e bollitura della canna che, una volta ripulita delle scorie, diventa pasta di cellulosa. Questa entra nelle torri di clorazione e di alcalinizzazione, dove viene sbiancata e purificata e trasformata in fogli. I fogli vengono pressati, aggiungendo soda caustica diluita, e disintegrati. I frammenti di cellulosa, diluiti nel disolfuro di carbonio, si trasformano in xantato di cellulosa, che fuso con la salamoia, da vita alla viscosa. Segue la fase di estrusione attraverso piccoli ugelli, in cui la viscosa, grazie all’azione di un acido, diventa un filo lucido e solido che viene arrotolato in gomitoli. Dopo una nuova lavatura e sbiancatura, si riavvolge in un gomitolo definitivo chiamato "rocca conica", costituito da cento chilometri di filo. Dalle umili canne di paludi malsane e fangose si ottiene così un tessuto economico simile alla seta. Con sette canne si può ottenere un vestito. E, se il sarto è bravo, si possono realizzare abiti d’alta moda da presentare nelle maggiori sfilate del mondo.

 

L’opera mette in evidenza l’estrema cura compositiva di ogni sequenza e alcuni elementi di quella che sarà la cifra stilistica di Antonioni, come il tema dell’ambivalenza degli insediamenti industriali che si installano nella campagna. Non sappiamo se il regista si sia confrontato con la poesia di Marinetti, ma si può notare come il documentario segua quasi fedelmente la scansione delle immagini evocate dal poeta, anche se ne muta completamente le implicazioni. 

Ritrovato nel 1995 nell’archivio storico della fabbrica, amorevolmente custodito da Enea Baldassi, Presidente dell’Associazione Primi di Tor Viscosa, e meritoriamente restaurato dalla Cineteca del Friuli di Gemona, il documentario è una testimonianza importante per la storia della chimica industriale del nostro paese e per i rapporti che essa seppe intrattenere con il mondo dell’arte e della cultura in generale.

domenica 12 agosto 2012

Monet, la cataratta e i colori

Ninfee, 1897-1899. Galleria d’arte moderna e contemporanea, Roma
Nel 1912 a Claude Monet (1840-1926), che da qualche anno lamentava problemi agli occhi, fu diagnosticata una cataratta bilaterale, che comporta un processo di progressiva perdita di trasparenza del cristallino e un ingiallimento e oscuramento dei colori percepiti. Man mano che la malattia progredisce, i cristallini degradati filtrano una parte dello spettro della luce visibile, e i colori che si percepiscono diventano confusi: i bianchi e i verdi diventano giallastri, i rossi assumono un tono arancio, i blu e i violetti sono sostituiti dai rossi e dai gialli; i dettagli si fanno vaghi e i contorni scompaiono per diventare sfuocati. 


Monet continuò a dipingere, ma la malattia lo costrinse a lottare per farlo. Si lamentava con gli amici che gli pareva di vedere tutto in una nebbia. Così scriveva intorno al 1914: "i colori non avevano più la stessa intensità per me; non dipingevo più gli effetti di luce con la stessa precisione. Le tonalità del rosso cominciavano a sembrare fangose, i rosa diventavano sempre più pallidi e non riuscivo più a captare i toni intermedi o quelli più profondi (...) Cominciai pian piano a mettermi alla prova con innumerevoli schizzi che mi portarono alla convinzione che lo studio della luce naturale non mi era più possibile ma d'altra parte mi rassicurarono dimostrandomi che, anche se minime variazioni di tonalità e delicate sfumature di colore non rientravano più nelle mie possibilità, ci vedevo ancora con la stessa chiarezza quando si trattava di colori vivaci, isolati all'interno di una massa di tonalità scure". In quegli anni, durante la fase acuta della malattia i colori dei suoi quadri assumono il fondo giallo opalescente dovuto al difetto del cristallino. Anche se stendeva i colori secondo l’abitudine e l’esperienza, confidando nell’ordine invariato dei colori sulla tavolozza e nelle etichette dei tubetti, non era più in grado di giudicare l’effetto che la sua opera poteva avere sul pubblico, né poteva ritoccare i dipinti senza il rischio di errori di giudizio. 

Stagno di ninfee, 1899. The Art Museum Princeton University, Princeton, New Jersey
Stagno di ninfee, 1908. Collezione privata, Sankt-Gallen
Tra il 1919 e il 1922 Monet temeva di dover smettere di dipingere. Poteva farlo solamente durante certe ore in cui l’illuminazione era ottimale, ed era conscio che la vividezza dei colori che vedeva era compromessa. Aveva da qualche anno rifiutato la proposta di un intervento chirurgico almeno all'occhio più colpito, perché temeva di perdere la vista o, quantomeno, di non riuscire più a cogliere distintamente le forme degli oggetti. La situazione stava tuttavia peggiorando, ed egli fu infine persuaso dall'amico Georges Clemenceau (suo futuro biografo) a vincere le proprie paure. 

Il ponte giapponese, 1920-22. The Museum of Modern Art, New York
Dopo anni di cure infruttuose, nel gennaio 1923, Monet fu operato per la rimozione del cristallino dell’occhio sinistro. Con una spessa lente correttiva, Monet poteva di nuovo vedere in modo accettabile, ma all’inizio lamentò visione doppia e distorsione delle immagini, rifiutando l’operazione all’altro occhio. Anche la percezione dei colori era radicalmente mutata: “Vedo il blu e non vedo più il rosso; ciò mi fa arrabbiare terribilmente perché so che questi colori esistono, perché so che sulla mia tavolozza c’è il rosso, il giallo, un verde speciale, un violetto particolare; non li vedo più come li vedevo un tempo”. Verso la fine dell’anno i problemi visivi si risolsero ed egli poté tornare a dedicarsi alla pittura. Solo che poteva vedere anche colori che non aveva mai visto prima. Monet, infatti, incominciò verosimilmente a vedere (e a dipingere) anche nell’ultravioletto. 

Noi possiamo convertire la luce nella visione grazie ai fotorecettori (coni e bastoncelli) della retina, che catturano i fotoni e attivano segnali elettrici che viaggiano fino al cervello attraverso il nervo ottico. I coni sono strutture pigmentate che si concentrano nella zona centrale della retina (la fovea) e sono deputati alla visione dei colori (fotopica) e alla visione distinta; ne esistono tre tipi diversi, sensibili rispettivamente al rosso, al verde e al blu. I bastoncelli, invece, sono più sensibili al movimento, sono impiegati per la visione al buio (scotopica) e si concentrano nella zona periferica della retina. 

L'occhio umano non è in grado di captare le onde luminose di lunghezza d'onda inferiore a quella del viola (ultraviolette) o di lunghezza superiore a quella del rosso (infrarosse). La visione avviene all’interno del cosiddetto spettro della luce visibile, che si colloca tra le lunghezze d’onda dai 380 ai 760 nm (1 nm, nanometro, corrisponde a un miliardesimo di metro). Gli uccelli, molti insetti e altri animali possiedono recettori in grado di vedere lunghezze d'onda luminose diverse da quelle percepite dall'essere umano. Ad esempio, si è scoperto che le api percepiscono i raggi ultravioletti, ma non percepiscono quelli rossi, che noi vediamo. La visione ultravioletta ha favorito l’evoluzione di pigmentazioni ultraviolette in molti organismi. In alcune specie di farfalle, maschi e femmine appaiono identici all'occhio umano, Tuttavia, alla luce ultravioletta, i maschi sfoggiano nitide macchie ultraviolette sulle ali per attirare le femmine. Molti fiori possiedono colori ultravioletti, spesso utilizzati per attirare l’attenzione degli insetti pronubi, come api e farfalle. 

Visione ultravioletta
Ciascun tipo di cono risponde con efficacia a un particolare colore, ma può essere sollecitato più debolmente dalle onde vicine nello spettro. Ad esempio, il fotorecettore sensibile alla luce violetta può rispondere debolmente alla luce ultravioletta, che possiede una frequenza maggiore. La maggior parte delle persone non fa questa esperienza, perché i nostri cristallini filtrano i raggi ultravioletti. Ma Monet poteva farlo, perché i soggetti con afachia (assenza del cristallino) sono spesso in grado di essere sensibili a lunghezze d’onda di 350 nm o meno ancora. Rimosso il cristallino, egli poté continuare a dipingere le ninfee e gli altri fiori, il ponte in stile giapponese, lo stagno e i giochi d’acqua e di luce tra i salici del suo giardino di Giverny, che fu il centro della produzione artistica del pittore negli ultimi trent’anni di vita. 

Lo stesso angolo di giardino prime e dopo l'intervento
Dopo l’operazione, sappiamo che Monet distrusse alcune delle sue tele più recenti. Molte di queste rimangono oggi solo perché furono messe in salvo dalla famiglia e dagli amici. Egli era perfettamente consapevole del mutamento nella sua percezione dei colori dopo l’intervento. Infine riprese fiducia nella sua capacità visiva e lavorò con lena a rifinire le grandi tele delle ninfee ora esposte al Musée de l’Orangerie di Parigi. 

Ninfee, 1920-26. Musée de l’Orangerie, Paris
Le ninfee rimasero uno dei suoi soggetti preferiti, solo che, dopo l’asportazione del cristallino, i fiori erano diversi. Scomparvero i toni giallastri dei dieci anni precedenti e tornarono i blu e i bianchi. Non è escluso, come è stato ipotizzato, che gli occhi di Monet potessero catturare alcune delle frequenze nel campo ultravioletto riflesse dai petali e a trasferirle su tela mescolando opportunamente il blu e il bianco. 

Un artista vede sempre cose che gli altri non vedono, è il suo dono ed è il suo compito rivelarle: così Marcel Proust (1871-1922), che amava i quadri di Monet e ne condivideva la sensibilità, dipinse (è il caso di dirlo) ad esempio le ninfee, in un brano del primo libro di Alla ricerca del tempo perduto, “La strada di Swann” (1913), che mostra rispetto all’opera del pittore una vicinanza impressionante: 

 Ma più lontano il fiume rallenta il suo corso, percorre una tenuta il cui accesso era aperto al pubblico da colui che la possedeva e che s’era compiaciuto in lavori d’orticoltura acquatica, facendo fiorire, nei piccoli stagni formati dalla Vivonne, veri giardini di ninfee. (…) Qua e là, alla superficie, rosseggiava come una fragola un fior di ninfea dal cuore scarlatto, bianco agli orli. Più lontano, i fiori più numerosi erano più pallidi, meno lisci, più graniti, più increspati, e disposti dal caso in volute di tanta grazia che pareva di vedere nuotare alla deriva, come dopo lo sfogliarsi malinconico d’una festa galante, delle rose borraccine in ghirlande disciolte. Altrove, un angolo sembrava riservato alle specie più comuni, che sciorinavano i lindi bianchi e rosa della giuliana, lavati come porcellana con cura casalinga, mentre un po’ più lontano, serrati gli uni contro gli altri in una vera aiuola galleggiante, si sarebbero detti delle viole del pensiero, venute a posare come farfalle le loro ali bluastre e lucenti sull’obliquità trasparente di quell’aiuola acquatica; (…) 
(traduzione di Natalia Ginzburg, Einaudi, 1978, pp. 180-181) 

Il ponte giapponese, 1919-24. National Gallery, London
Tuttavia, nel caso di Claude Monet, possiamo supporre che, negli ultimi due anni di vita, egli potesse vedere davvero cose che gli altri non possono vedere.

venerdì 10 agosto 2012

Nicola, di Anna Maccagni

Non ricordo esattamente il giorno in cui entrò a far parte del personale della scuola, ma di sicuro sono più di vent'anni. Ho in mente le voci delle bidelle che s’inseguivano lungo i corridoi deserti del pomeriggio e il loro richiamo: “ Nicola… Nicola, dai vieni!”. Davanti ai miei occhi scorre la fugace immagine di un’esigua processione zoccolante: in testa il carrello delle pulizie spinto dalle ausiliarie e dietro, molto indietro, un ragazzo piccolino e rotondetto che camminava guardandosi attorno… 
A quei tempi gli insegnanti non si trattenevano a scuola dopo le ore di lezione; così era difficile conoscere chi, come Nicola, iniziava la sua attività proprio quando noi docenti scappavamo a casa felici come allievi. Quando capitava che mi dovessi fermare anche di pomeriggio, lo vedevo passare sempre muto e silenzioso. Spesso faceva capolino con la testa nell'aula in cui mi trovavo e mi fissava immobile, ma non appena facevo mostra di vederlo subito si ritirava, scomparendo chissà dove. 
Dovetti aspettare ancora qualche anno per fare la sua diretta conoscenza. 

“Nichi, per favore, svuotami il cestino…”. Sentii Silvana che lo chiamava ancora, ottenendo solo dei borbottii come risposta. 
“Ma c’è ancora qualcuno nell'aula?” “Sììì… Macaloni!” 
Fu così che seppi di avere un nuovo cognome e non ci fu verso di far imparare a Nicola quello originale. Dopo molti tentativi infruttuosi e solo dopo aver guadagnato la sua completa fiducia, trovò più comodo chiamarmi per nome. Scoprii comunque di non essere l’unica tra i colleghi ad aver subito questa piccola rivoluzione nei dati anagrafici: c’erano i vari Pichini, Manano, Iva e tanti altri che non ricordo più.
Venni a sapere che Nicola era l’ultimo figlio di una coppia d’anziani. Nonostante le cure e le attenzioni che gli dedicavano, credo che i familiari lo avessero sempre trattato come un diverso, difficile da gestire. L’immagine di quell'adulto-bambino, fatto sedere accanto alla radio ad ascoltare i rosari di Radio Maria, m’intristiva e m’indignava… Per fortuna c’era anche un fratello, evidentemente più laico e godereccio, che ogni mercoledì lo portava con sé in una piccola emittente televisiva locale a ballare il liscio. Non mi aveva rallegrato molto il pensiero di Nicola che volteggiava in mezzo a coppie stagionate da vecchia balera; ma quando mi dissero che lui amava ballare e vidi i suoi occhi a mandorla brillare di gioia al ricordo di quei mercoledì danzanti, mi sentii più tranquilla. 

Ha fatto molta strada insieme a noi questo ragazzo di quarant'anni dal cuore eternamente fanciullo, tanto che a scuola è ormai considerato un’istituzione. E’ solare, allegro e così diverso dalla persona timida e chiusa dei primi tempi, quella che aveva paura di disegnare con i pastelli colorati e usava sempre la matita nera…
Cololare!” annuncia adesso, entrando in sala professori, carico di album per bambini da riempire di colori e una manciata di vecchi pennarelli. Mi domando spesso dove siano finite le scatole di matite colorate che gli ho portato o i pennarelli nuovi regalati da un collega. Credo che non lo scoprirò mai, perché quando glielo chiedo, scoppia a ridere come se mi prendesse in giro. 
Oltre a colorare, ci sono altre due cose che fanno felice Nicola, Babbo Natale e l’oratorio feriale. Bisogna stare attenti a non pronunciare queste due parole magiche anche in periodi non canonici, altrimenti tutti giorni cominciano le sue domande insistenti. 
“Anna e… Papo Tale?” chiede, non appena m’incontra, anche se siamo a ottobre. 
“ E’ presto, Nichi! Dopo… dopo!” 
Solo ai primi di dicembre, è consentito rompere l’incantesimo e, al suono di Papo Tale, si spalanca un mondo meraviglioso, fatto di renne, di Babbi Natale indaffarati, di pacchi e di doni. Non so da dove venga questa sua passione per i regali di Natale, perché non credo che in famiglia ne abbia mai ricevuti tanti; forse è l’idea in sé del regalo ad affascinarlo, così come l’attesa per qualcosa di fantastico che deve arrivare.
Sìììììì… Papo Tale!!!” è il ritornello degli ultimi giorni di scuola, prima delle vacanze natalizie. Mi guarda in faccia, in cerca di una conferma che cattura all'istante: gli occhi gli s’illuminano e comincia a battere un pugno sopra l’altro seguendo il ritmo del suo cuore emozionato. Non credo di averlo mai visto così felice, nemmeno quando scarta i suoi pacchetti o quando, tutto imbacuccato, fa ritorno a casa col sacchetto dei doni in una mano e il panettone nell'altra. 

Con l’arrivo della primavera, forse complice il primo caldo, cominciano le domande via via più insistenti sull'oratorio feriale. 
Ferale? E… ferale, Anna?” mi chiede speranzoso, guardando l’enorme struttura della parrocchia che si spalanca al di là dei cancelli della scuola. 
“E’ ancora presto, Nichi!” Gli mostro i grandi tigli privi di foglie e i maglioni che ancora indossiamo: non è ancora giunto il momento dell’oratorio estivo, la fine di giugno è ancora lontana. Nicola si tira su la cinghia dei pantaloni, fino a farli diventare un modello ascellare, e si stiracchia le maniche della felpa, allungandole a dismisura: è un modo per mostrare che non gradisce, ma sa che dovrà aspettare ancora… 

Finiscono le scuole e finalmente arriva l’ultima settimana di giugno. Tutto è pronto all'oratorio: i grandi tendoni bianchi che raccoglieranno nell'ombra protettiva i bambini durante i giochi e il pranzo; le signore che allestiscono la cucina e le attrezzature per i momenti di svago. Nicola non domanda più, il feriale è una certezza. 
Arriva poi un giorno che sembra come tanti altri: nella scuola vuota sono pochi i colleghi rimasti, qualche saluto, qualche risata… Nel silenzio dell’edificio si sentono solo rumori dei banchi spostati per le pulizie e l’odore forte dei detergenti. Manca qualcuno, però. 
“Non c’è Nicolino?” chiedo a Silvana. 
“E’ al feriale…” e subito, a conferma delle sue parole, dal cortile giunge una voce al megafono che chiama a raccolta tutti i bambini. Si sente vociare, ridere, i primi calci al pallone contro le cancellate e musica, tanta musica. Penso a Nicola e lo immagino correre felice in mezzo ai compagni di una lunga estate, fatta di giochi e di allegria. 
“Anna!!! An-na… An-na… An-na! Anna-Anna-Anna!” E’ Nichi, in mezzo ad un gruppo di bambini che guarda incuriosito attraverso le sbarre del cancello. E’ sudato, accaldato per la corsa e si sbraccia per salutarmi. Un attimo ed è già scappato… 
Difficilmente tornerà a farsi vedere. Forse, guardando bene, in mezzo a tanti ragazzini riuscirò a scorgerne uno con i calzoni corti, uguale a tutti gli altri se non fosse perché indossa la maglietta che solo gli animatori dell’oratorio portano. Perché anche al feriale Nicola è diventato un’istituzione e lui ne va fiero.